Siamo topi di laboratorio. Fantascienza. L’ospedale fantasma n.7.
Topi di
laboratorio
L’ospedale fantasma n.7
Romanzo di Federico Berti
FANTASCIENZA ITALIANA
UN GIOCO D’AZZARDO
La bionda ossuta ancheggia sui tacchi. Dopo essersi levata dalla sdraio come uno scheletro s’innalza dalla tomba, mi appare in tutta la sua rachitica figura avvolta in un terrificante caftano bianco, cintura di cotone annodata in gran fiocco sull’anca, due cuori rossi là dove normalmente si nascondono i capezzoli. L’anoressica strizzacervelli non ha carne viva sul petto, vedo incunearsi la scollatura come una crepa nel terreno dopo il terremoto sopra una piana di sale. Ondeggia la testa muovendo un passo dopo l’altro, il cappello di paglia a tese larghe par che voglia salutare allontanandosi verso il cancello dell’ospedale giudiziario. La maggior parte dei detenuti maschi osserva il macabro spettacolo con eccitazione comprensibile solo tenendo conto della lunga permanenza in struttura, ognuno di loro si lascia travolgere da pertinace intraprendenza pur di farsi intorno ai riccioli del cadavere ambulante, chi spazza avanti e indietro il viale, chi unge i cardini di porte e finestre, chi pota le siepi. Le inquietanti rivelazioni dell’assistente sociale circa il grave pericolo che corriamo nel lungo soggiorno qui dentro, m’hanno messo a disagio.
Di ritorno al secondo piano trovo la solita compagnia al tavolo con le carte in mano. Giocano pesante. Non avendo soldi in tasca s’impegnano ad assolvere estenuanti corvee in cucina, alle pulizie, all’assistenza dei meno fortunati, è quella che chiamano l’imperatrice a compilare i turni secondo le annotazioni delle vincite. Ecclesiarda Scalzacani affigge le tabelle fuori dalla sua squallida mansarda. Quei balordi bestemmiano con la bava alla bocca sgranando gli occhi e minacciando innominabili supplizi corporali, è tutto un mostrare pugni chiusi, mascelle strette, gengive rabbiose. Mentre seguo l’andamento della partita qualcosa d’insolito cattura la mia attenzione, si direbbe un brusio sommesso. Voci che sussurrano nell’ombra, per lo più femminili. Non vedo nessun altro nell’androne del reparto. Arrotolate su loro stesse, le voci ripetono uno stesso formulario. Parole incomprensibili sentendole da qui. La mia schiena è percorsa da un brivido.
LE VOCI DI DENTRO
Tendo l’orecchio allontanandomi dal tavolo in cerca d’una traccia sensibile, come il cane quando fiuta la preda. L’acustica naturale è piena di rientranze, cavità risonanti che traggono facilmente in inganno, percorso qualche metro verso il centro dell’ampio locale finalmente scorgo qualcosa dietro una colonna: s’intravede appena una gonna orlata sotto il ginocchio, spessi collant che si tuffano dentro scarpe di pelle rigida, lucida, poco oltre l’uscio. Muovendomi in quella direzione sento sfumare le bestemmie in lontananza. Una figura umana m’appare dunque seduta in appassionato contegno, gli occhi levati al cielo in contemplazione estatica; accanto a lei una seconda a capo chino le mani giunte in grembo, una terza muove le labbra guardandosi intorno e sbuffando annoiata. Avevo sentito parlare di loro. Sono anziane donne che sgranano il rosario con un fil di voce. Non so perché mi vengono in mente le catacombe. Mai stato un fervente religioso, manderei volentieri la maggior parte dei preti che conosco a raccogliere lo zolfo in miniera col pisello di fuori.
Tuttavia non siamo in terra consacrata, è piuttosto un sottoscala. Vedove in dignitosa miseria, non possono permettersi una residenza assistita così han fatto domanda per il programma di convivenza con questa piaga di manigoldi: dicono sia per la riabilitazione, come se le mele marce tornassero buone mettendole insieme a quelle col verme e non viceversa. Leggo una desolante paura nei loro sguardi, si voltano spesso indietro. Distendono la fronte appena avvertono la mia presenza. Osservandole un poco intuisco il problema, dimenticano le invocazioni subito dopo averle pronunciate e così riprendono più volte da capo dilungandosi fino all’inverosimile. Ho un’intuizione. Siedo accanto a loro chiedendo in prestito un libro dei misteri, guido personalmente le ultime orazioni. Non serve un prete a dire il rosario, un quarto d’ora più tardi le tre vecchie mi ricompensano con un bel sorriso. Telecamere dell’ospedale puntate su di noi, androidi registrano ogni movimento, l’algoritmo prende nota. Svolgo medesima funzione il giorno successivo, poi un terzo, un quarto, vado in cerca d’altri pazienti poveri nelle camerate e ne scopro una quantità rilevante. Torno quindi nel sottoscala recando con me qualche sventurato in carrozzina, mi basta una settimana per mettere insieme una trentina d’ammalati. Sorridono con viva soddisfazione, dove sono vedove oranti non può esservi malizia, perciò si sentono al sicuro. Lo sono, in un certo senso.
FORZARE L’ALGORITMO
Trascorsa una ventina di giorni dalla prima sessione mi trovo a passeggiare in giardino e noto un particolare che mi sorprende piacevolmente, panche e sedie vuote disposte intorno all’edicola della Madonna nel cortile interno davanti al cancello. Un tavolo da tè, un vaso, fiori di campo. Ripenso alle parole della bionda senza petto, dev’essere per noi più piacevole vivere qui dentro che arrancare là fuori, da uomini liberi. Siamo topi di laboratorio, la porta della gabbia aperta e nessuno si sogna di scappare. Il personale addetto alla ricerca valuta il nostro comportamento come una macchina potrebbe valutare la disposizione dei pezzi sopra una scacchiera, per loro esistono solo valori assoluti. L’importante è non metterli in allarme, mantenere la calma dentro e fuori.
L’afflato religioso dei giorni scorsi ha abbassato il livello dell’ansia nella comunità degli ospiti non autosufficienti, ciò risulta funzionale al mantenimento dell’ordine e viene dunque favorito dall’algoritmo; trasmesso il rilievo in reparto, sono misteriosamente comparse le sedie al pilastrino. Ora capisco, si può forzare la mano straniandosi dal proprio sé. Coltivare dei rapporti solidali mi consentirà col tempo d’acquisire informazioni, potrò indagare sull’omicidio in biblioteca senza destare sospetti. In buona sostanza, trovandomi confinato in una residenza psichiatrica giudiziaria, privato della mia libertà personale, sotto accusa per un delitto che non ho commesso, la disperazione è solo tempo perso. Restarmene in cella a guardare attraverso i vetri rotti non serve.
Più tempo trascorro qui dentro, più la mia volontà viene messa a dura prova. Corro il rischio di sprofondare anch’io lentamente in questa palude senza ritorno. Il solo modo per venirne fuori è innescare intorno a me un circolo virtuoso, proiettando sulle persone che vivono qui il mio naturale istinto di conservazione. Prendermi cura di loro. Se riesco a rompere l’isolamento senza alterare le condizioni di sicurezza, forse posso ritrovare il filo d’Arianna e svolgerlo nel labirinto costruito apposta per divorare chi l’abita. Ripristinare delle relazioni positive tra gli ospiti, è il primo passo per ritrovare anche delle relazioni col mondo esterno. Non v’è altra soluzione, se non voglio perdermi nel nulla. (Continua)