Non solo Greta, non solo il clima. Le riforme non bastano. Per un nuovo movimento ambientalista.

Per un nuovo
movimento ambientalista

Non solo Greta, non solo clima

Articolo di Federico Berti

FRIDAY FOR FUTURE

Mi stanno chiedendo in tanti cosa ne penso del Friday for Future e del movimento nato intorno alla questione ecologista, che lo ricordo va intesa in un senso molto più ampio, non solo il cambiamento climatico e il riscaldamento globale ma più in generale il problema della sostenibilità e della decrescita felice. E’ molto difficile prendere una posizione quando tutte le sedie sembrano essere già occupate, ovvero quando non leggi altro che un riverbero seriale delle stesse domande e delle stesse risposte, contrapposte come s’un campo di calcio nella logica ‘squadristica’, mi si consenta il gioco di parole, dell’adesione o del rifiuto. Proverò ad affrontare il problema secondo il punto di vista del materialismo storico e della tradizione ambientalista, nel cui solco questa protesta forse non si è resa ancora conto di essersi già inserita.

L’ostinazione con cui si vuole ridurre la mobilitazione in tutto il mondo in favore dell’ambiente al capriccio di una bambina è solo un modo come un altro per distrarre dai problemi reali, ovvero l’insufficienza e l’inadeguatezza del riformismo davanti a un problema che nessuno governo liberale è stato in grado di risolvere

CHI C’E’ DIETRO LA THUNBERG

E’ inutile lamentarsi del fatto che la protesta sia partita da una famiglia d’arte svedese e da un pubblicitario, la storia passata ha già mostrato quanto sia necessario il contributo di ‘avanguardie’ intellettuali in grado di stimolare una riflessione critica e attraverso un vasto numero di persone, per cui non ha alcun senso puntare il dito contro la campagna della famglia Thunberg se questa ha avuto il merito d’innescare una scintilla a così ampio raggio. Nello stesso tempo non si può demonizzare l’adesione alle istanze del dibattito da parte dei cosiddetti ‘poteri forti’, capaci di muovere capitali finanziari: lo abbiamo visto al tempo di Lenin, una rivoluzione è possibile soltanto quando le forze in campo concorrono verso un intento comune. Quindi anche la borghesia, l’esercito, il clero, se condividono l’obiettivo. E’ dunque inutile continuare a denunciare l’interesse opportunistico di startup e multinazionali, a patto che queste non finiscano per essere la sola forza trainante e non vadano a monopolizzare il processo storico, riducendolo a una questione privata.

E’ SOLO UNA BAMBINA

E’ irritante sentir parlare sempre e solo di Greta Thunberg come se il movimento si potesse risolvere nella sua persona e nel suo carisma, tanto più mi indispettisce sentirne parlare come di una ‘ragazzina’, lo trovo irrispettoso nei confronti di una giovane donna che tra solo due anni potrà votare, che in questo stesso momento potrebbe avere dei figli come ne hanno avuti alla sua età molte delle nostre nonne, e che ha quasi completato la sua formazione di scuola secondaria. Una così forte presenza di giovani e minorenni nelle strade di tutto il mondo non va interpretata come un gioco adolescenziale o una scusa per non andare a scuola, sarebbe riduttivo. L’impegno civile non ha età. Come purtroppo esistono bambini sfruttati dal capitale, così è naturale che esistano anche bambini ostili alla violenza del capitalismo. Non considero la presenza di minorenni un ostacolo o un limite di questo movimento, anche se a quell’età si presume che siano comunque seguiti, affiancati e consigliati da almeno un familiare adulto.

Se a sedici anni si è grandi abbastanza per avere dei figli, per essere sfruttati da un datore di lavoro, per essere oggetto di violenze personali, non c’è motivo di pensare che a quell’età non si possa essere grandi abbastanza per lottare contro l’ingiustizia e lo sfruttamento delle risorse ambientali

IL RISCALDAMENTO GLOBALE NON ESISTE

Un altro punto da sfatare è la famosa lettera dei ricercatori dissidenti che sostengono l’esistenza di un dibattito interno al mondo scientifico sul problema del riscaldamento globale. Non perderò tempo a destituire di credibilità queste voci, mi limiterò a ricordare che il cambiamento climatico rappresenta solo una delle istanze fatte proprie dal movimento e che il problema è di ben più vasto respiro: quel che i giovani stanno chiedendo è più in generale il vecchio tema della sostenibilità, la causa ecologista che ha una sua storia e una sua dignità complessiva, ma soprattutto non è falsificabile. Vale a dire che nessuno può venire a dirci: “L’inquinamento non esiste”, questo lo sappiamo ed è evidente che il mondo non abbia fatto né stia facendo abbastanza per invertire il pericoloso processo di involuzione, che (sia ben chiaro) comporta un rischio di sopravvivenza per la nostra specie, non per il pianeta che abitiamo.

LA PROTESTA INQUINA

Trovo un po’ patetico ridursi a commentare la barca a vela in fibra di carbonio con cui Greta Thunberg ha attraversato il mare, i viaggi in aereoplano necessari a riportarla indietro, il mappamondo bruciato in piazza o il fatto che questi giovani portino capi firmati, magari confezionati dai bambini sfruttati delle favelas o del sudest asiatico. Chi pensa di poter muovere obiezioni del genere senza passare da ridicolo, non è solo disonesto, è anche poco dotato intellettualmente. Ovvio che per raggiungere un obiettivo bisogna muoversi a partire dal qui e ora del mondo in cui viviamo. Se l’economia mondiale obbliga i poveri dei paesi più sviluppati a vestire gli abiti confezionati dai poveri dei paesi più deboli, la colpa non è di quei bambini, ma di chi ha creato le condizioni per cui questo fenomeno sia possibile. Se i giovani sembrano incapaci di parlare una lingua diversa da quella dei social networks in cui trascorrono gran parte del loro tempo libero, la responsabilità e di chi ha messo loro in mano un cellulare fin da piccoli per ‘tenerli buoni’. Siam qui per costruire su macerie, da qualche parte dovremo pur cominciare.

Le conseguenze dell’inquinamento, della sovraproduzione e del sovrapopolamento, si possono contrastare solo con un cambiamento profondo della nostra società, non solo con un vago e moderato riformismo. Il peso di questo cambiamento non può ricadere sulla fasce più deboli, ma dev’essere condiviso a ogni livello.

L’OLTRANZISMO NON RISOLVE

Un’altra delle obiezioni mosse alla famiglia Thunberg è che le sue posizioni oltranziste e la sua narrativa emozionale siano distanti dai problemi veri, che non portino a soluzioni concrete: le misure per l’ambiente prese dalle amministrazioni ‘progressiste’ sia negli Stati Uniti che in Francia, hanno di fatto gravato sulle classi sociali più esposte creando un ostacolo allo sviluppo industriale, portando alla chiusura di molte fabbriche, alla disoccupazione e al degrado sociale. Questo potrebbe aver dato impulso, secondo alcuni economisti, alla svolta reazionaria degli ultimi anni, lasciando il campo libero all’ascesa delle destre col ritorno al protezionismo e al liberismo selvaggio. Così la pensano in molti, convinti forse di poter risolvere i problemi ambientali catturando l’anidride carbonica emessa nell’aria per poterla ‘stoccare’ nel sottosuolo, mostrando così di non aver realmente compreso le istanze del movimento che si è formato molto prima della campagna promossa dalla famiglia Thunberg. Perché il problema non è ‘tappare dei buchi’, ma perseguire un cambiamento radicale della società, dell’economia, del mondo. Non è sulle classi più esposte che deve ricadere il peso della riconversione economica, ma sulla società nel suo complesso. Anche a costo di stabilire un controllo delle nascite, se la riduzione del fabbisogno non fosse risolutiva e la sovrappopolazione si rivelasse un ostacolo all’attuazione del programma.

LA COLPA E’ DEL TERZO MONDO

Un’ultima obiezione che si sente in questi giorni riguarda il fatto che la maggior parte delle emissioni di anidride carbonica e di inquinamento provengano dalle economie emergenti, dalla Cina comunista e dall’Africa. Non prendiamoci in giro, se noi usiamo quei paesi come discarica dei nostri problemi, la responsabilità del contributo che loro danno all’impatto sull’ambiente è anche nostra. Se la plastica finita nelle isole del Pacifico proviene dalla raccolta differenziata in Trentino, il cui smaltimento abbiamo delocalizzato, o se noi rivendiamo al mercato in via di sviluppo i motori a gasolio rottamati per la riconversione ecologica, sono le nostre automobili a inquinare il continente africano, non le loro. Se costruiamo le fabbriche in Brasile, dove allo sviluppo industriale del paese viene sacrificata l’Amazzonia, la colpa non è solo di Bolsonaro, dunque possiamo dire che il problema ambientale non si risolve puntando il dito sugli altri o chiedendo moderate riforme, ma con un cambiamento radicale della società, da perseguire con fermezza in un tempo oltre tutto limitato, vista la gravità dello stato delle cose.

Ridurre il fabbisogno significa anche sovvertire il sistema di produzione consolidato nel liberismo e nel consumismo capitalista. Solo un’economia pianificata e un investimento nella ricerca, nella cultura, nella sperimentazione, nell’educazione civica, può contribuire a ridurre veramente l’impatto sull’ambiente.

Riassumendo, come abbiamo visto sono irrilevanti e fondamentalmente prive di senso le principali obiezioni che si leggono in questi giorni alle nuove forme di mobilitazione per l’ambiente. Veniamo ora alla riflessione critica e alle prospettive future.


L’IDENTITA DI UN MOVIMENTO

Ogni movimento di attivismo si inserisce in una tradizione storicamente consolidata, ha bisogno di principi, di un processo nel quale inserirsi, che non vuol dire ripetere gli errori del passato ma analizzarli obiettivamente con disincanto per poterli evitare in futuro. All’epoca delle prime lotte sindacali nell’800 si prendeva ispirazione dalla letteratura utopistica, dalla Repubblica di Platone, le Città del sole di Sant’Agostino e Tommaso Campanella, l’Utopia di Tommaso Moro, la Nuova Atlantide di Francesco Bacone e le esperienze rivoluzionarie dei movimenti di cui la cronaca del loro tempo aveva lasciato traccia, quindi le rivolte degli schiavi nell’antica Roma, le guerre contadine del XVI secolo, la Rivoluzione Francese e il movimento giacobino. Partendo da quella tradizione si è cercato di capire in cosa il nuovo movimento potesse distinguersi dgli altri che lo avevano preceduto, qual’era cioè il cambiamento necessario per poter sviluppare una nuova forma di lotta civile per la giustizia e la libertà. Tornando al nostro tempo, sappiamo che il movimento ecologista ha radici nella terza rivoluzione industriale, se ne parla fin dagli anni ’60 quando un sedicenne ebreo (allora, un maschio) di nome Robert Zimmerman, cantava le sue invettive apocalittiche contro il capitalismo e la catastrofe ambientale alle porte. Ripercorriamo la storia di quel movimento e cerchiamo di capire quale sia stato il suo apporto positivo, quali i punti su cui dovremmo innovare per andare oltre.

Il movimento ecologista è una realtà attiva dagli anni ’60 del secolo scorso, la recente adesione di massa e il coinvolgimento dei minori in questa lotta per la sostenibilità non può essere derisa o peggio, messa sotto accusa. Il problema è non fermarsi ai primi segnali di opposizione violenta.

LO SPONTANEISMO NON PAGA

Se vogliamo che questa nuova mobilitazione abbia un futuro, dobbiamo tener presente che lo spontaneismo non paga. Non basta qualche rivolta isolata. Soltanto se saremo consapevoli di quello che stiamo facendo potremo ottenere dei risultati concreti e questa consapevolezza richiede prima di tutto un’informazione completa, una prospettiva storica e un’analisi critica. Ad esempio non ho sentito nessuno dei partecipanti, né dei media coinvolti, citare il famoso Accordo di Parigi che sembra essere la panacea per tutti i mali secondo la proposta della famiglia Thunberg da cui è partita la mobilitazione, non sento un dibattito informato sui punti richiesti dalle 195 nazioni che lo hanno firmato, né un’eventuale proposta alternativa che possa far crescere la riflessione sul tema; a dire il vero, un’ampia parte di manifestanti pare che non sapesse nemmeno l’esistenza di questo accordo. L’adesione ‘di pancia’ non è mai rivoluzionaria. Disse Gramsci, studiate perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Una lotta civile ha bisogno di essere organizzata, serve un partito politico e un dibattito che coinvolga anche la base popolare del movimento.

QUANDO L’OPPRESSIONE SI FA VIOLENTA

Infine si deve ricordare ai giovani in lotta che qualsiasi rivendicazione sociale comporta un sacrificio, quando un movimento disturba davvero è la volta che l’oppressione si fa violenta: compaiono i provocatori, gli agitatori pagati dagli stessi poteri forti per sollecitare la repressione nel sangue da parte dei governi e succede come negli anni ’70 del secolo scorso, o se vogliamo guardare a un periodo più recente, come a Genova al tempo del Social Forum. E’con le prime violenze di piazza che la maggior parte dei movimenti, se non davvero motivati, si scompone, smette di partecipare. Non è una vacanza ma una guerra. Dovete aspettarvi la reazione violenta del potere contro cui avete scelto di manifestare. Preparatevi a vedere intorno a voi morti e feriti, fumo, pianti, grida, campane che suonano a lutto.

194 ambientalisti uccisi solo nel 2018. Un bollettino di guerra. Non è un gioco ma una strage silenziosa. L’ambientalismo senza lotta al capitalismo è giardinaggio.

EPPUR SI MUOVE

Detto questo, non c’è motivo di rimproverare dei giovani che prendono l’iniziativa e si espongono. Quale che sia l’elemento scatenante, il fatto stesso che qualcosa si stia muovendo va interpretato come un fenomeno positivo. Ora questa nuova forza che nasce deve trovare un’identità, identificarsi in una tradizione, inserirsi nella continuità dei processi storici, esprimere non solo dei portavoce ma un’ideologia chiara e condivisa, una forza politica in grado di portare avanti le rivendicazioni, delle proposte davvero efficaci che sappiano eliminare il problema alla radice, non solo arginare qualche piena. E soprattutto, si dev’essere pronti al peggio, rendersi conto che la protesta non è un gioco ma una guerra: se con la prima violenza di strada il movimento si disperderà, vuol dire che non era abbastanza motivato. Ma se come al tempo dell’India di Gandhi si farà al contrario più compatto, più unito, può darsi che la storia abbia ancora da riservarci delle sorprese.

Rassegna stampa
Ambientalista uccisa

Biagio Chiarello, ‘Fanpage’, 4 Marzo 2016, Honduras: uccisa barbaramente l’attivista Berta Caceres, ‘nobel’ per l’ambiente, L’ecologista indigena nel 2015 aveva ricevuto il premio Goldman, il più importante riconoscimento mondiale per le attività a favore dell’ambiente. La madre: “La polizia dice che è una rapina, ma noi tutti sappiamo che è accaduto per le sue battaglie”.

s.a., ‘Il Messaggero’, 7 Luglio 2016, Filippine, ambientalista uccisa a colpi di pistola: lottava contro l’inquinamento causato da deposito di carbone.

s.a., ‘Lettera Donna’, 4 Febbraio 2018, Chi era Renata Fonte, l’ambientalista uccisa dalla mafia. La storia della politica e attivista locale che Cristiana Capotondi la intepreta nella fiction Liberi sognatori.

Andrea Barolini, ‘Lifegate’, 16 Marzo 2018, Brasile, uccisa l’attivista Marielle Franco. Si batteva contro la violenza nelle favelas. La consigliera municipale di Rio de Janeiro Marielle Franco è stata uccisa il 14 marzo. Si era schierata contro la violenza dei militari nelle favelas.


Futura D’Aprile, ‘TPI News’, 21 Aprile 2018, Olivia Arévalo Lomas, uccisa perché proteggeva i diritti degli ultimi indigeni in Perù. Saggia indigena e studiosa delle tradizioni degli shipibo-konibo, si era battuta per anni in difesa dei diritti culturali e ambientali di questo popolo. È stata uccisa da 5 colpi di arma da fuoco

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