Tarocchi come Clavis Magna. Tra divinazione e arte della memoria
I Tarocchi come Clavis Magna
Articolo di Federico Berti
E’ ormai assodato che il mazzo di carte con cui siamo soliti giocare a Briscola e Tresette altro non è che il mazzo dei Tarocchi ‘epurato’ dalle 22 figure aggiuntive che un tempo ne facevano parte. Quelle complesse figurazioni oggi impiegate per vaticinare improbabili responsi erano un tempo incluse nello stesso mazzo usato per giocare d’azzardo nelle osterie. Non staremo qui a censire tutte le tipologie, edizioni, serie iconografiche e loro distribuzione nell’orbe terracqueo, partiremo dall’assunto che il lettore di questo articolo conosca già un minimo di storia dell’argomento. Quel che a noi interessa è prendere atto che inizialmente Arcani Maggiori e Minori facessero parte di uno stesso progetto editoriale. L’ipotesi attualmente più accreditata è che all’inizio le carte venissero impiegate sostanzialmente per il gioco e solo verso la metà del XVIII secolo intorno agli Arcani Maggiori siano venute a svilupparsi pratiche di occultismo e divinazione, mentre quelli cosiddetti ‘Minori’ continuarono ad essere impiegati nell’intrattenimento ludico, dunque le loro vicende si separarono e i due mazzi cominciarono ad essere distribuiti separatamente. Se pure quest’ipotesi ha una solida coerenza interna, sono tuttavia doverose alcune precisazioni. In primo luogo il concetto di ‘gioco’ era molto diverso nel Rinascimento rispetto a oggi, non lo si pensava come un semplice passatempo ma lo si investiva di una responsabilità formativa, il gioco veniva considerato anche uno strumento d’inculturazione e non solo un modo per intrattenersi piacevolmente. Conseguenza di ciò è che la carte avessero un fine più alto per chi le ha concepite e promosse a ogni livello, dalle corti aristocratiche al più povero dei contadini. Si deve perciò rivedere la rigida separazione tra impiego ludico e filosofico, in quanto i due atteggiamenti erano un tempo indistinti nella mentalità di chi ha concepito le carte e di chi le usava.
Quando si parla di derivazione dei Tarocchi dunque, non dobbiamo pensare alla nascita del mazzo in sé ma alle fonti che indussero i primi miniaturisti ad attingere alle arti e alle scienze del loro tempo. Non le carte in quanto tali, ma l’immaginario di cui queste si erano fatte portatrici fin dalle prime edizioni del Quattrocento, attinge alla filosofia antica, alle tradizioni magico-religiose, all’ermetismo, alla cabala, all’alchimia, alla mitologia classica, ponendosi effettivamente come un compendio e una sintesi estrema di vasti contenuti. Gli stessi giochi pensati per quel mazzo di carte avevano uno scopo addestrativo, non solo di intrattenimento. Servivano ad esercitare l’ars reminiscendi. Per noi oggi è naturale partire dal presupposto che un buon giocatore debba ricordare le carte man mano che escono, ma quando il gioco si è diffuso questo non era affatto scontato. Si trattava di un momento storico estremamente delicato. Era il tempo in cui la Riforma Protestante aveva messo in luce l’importanza di alfabetizzare le masse per emanciparle dal monopolio ecclesiastico della cultura, ragion per cui si riteneva importante insegnare l’arte della memoria non solo nell’alta società ma anche fra gli umili e gli illetterati. Si deve contestualizzare la nascita dei Tarocchi nel tempo in cui i libri scomodi venivano bruciati insieme ai loro autori e molti se li tramandavano letteralmente ‘a memoria’, anche nelle stalle dei contadini. Le complesse figurazioni, la concezione filosofica dei semi associati ai quattro elementi fondamentali dell’alchimia, l’organizzazione delle serie numeriche, dovevano servire non solo per intrattenere, ma per sviluppare, potenziare e armonizzare la mente. In questo senso parleremo dunque di Tarocchi come di Clavis Magna, con riferimento all’ars lulliana e alla mnemotecnica bruniana, ovvero allo studio della mente che proprio nel tempo in cui si diffusero i primi mazzi di carte stava elaborando una nuova sintesi di formazione e intrattenimento.
Alla luce di queste considerazioni diremo che gli Arcani Maggiori e Minori dei Tarocchi sono stati concepiti fin dalle prime elaborazioni come sintesi visiva e non verbale di un sistema sapienziale che si riteneva dovesse far capo a una scienza ancora in via di affermazione, in cui trovava spazio la filosofia di intellettuali che perseguivano la ricerca interdisciplinare tentando un’ardita sintesi tra filosofia greco-latina, misticismo religioso, alchimia, astronomia, matematica. Per questo sono immagini tanto suggestive, perché risultano da una sintesi di conoscenze in ambiti tra loro molto diversi. Inutile dire che questi liberi pensatori si guardarono bene dall’esibire prodigi e illusionismi da saltimbanco, non resuscitavano i morti, non cambiavano l’acqua in vino (o il piombo in oro, ossessione di tanti loro contemporanei), erano semplicemente filosofi, poeti, musicisti o per dirlo con una parola che racchiude tutte queste figure, intellettuali. Usavano i Tarocchi come imagines agentes, termine che nell’ars memoriae indica luoghi comuni suscettibili di molte interpretazioni, intorno ai quali si è andato coagulando nell’arco di secoli un complesso sistema di simboli e interpretazioni, strumenti cognitivi in grado di strutturare il sapere addestrando la mente a costruire complesse architetture nelle quali ‘incasellare’ le conoscenze. Non è un caso che a queste pratiche di narrazione combinatoria e mnemotecnica siano associate figure come quella del Bembo, dell’Aretino e del Boiardo, autori di poemi che i contadini imparavano a memoria e recitavano la sera nelle stalle. Poemi che ‘dilettavano insegnando’, per ricorrere alla nota massima oraziana.
Ricusiamo dunque con forza le derive occultistiche e divinatorie che guardano alle carte come a uno strumento per rubare al futuro i progetti di un fatuo destino, ma restiamo ugualmente consapevoli che le figurazioni degli Arcani, la concezione stessa dei semi, l’impiego dei numeri, rimandi consapevolmente alla rinascita neoclassica e a quei campi d’indagine che a partire dalla svolta umanistica nel Quattrocento porteranno alla nascita del metodo scientifico due secoli più tardi: matematica, geometria, astronomia, alchimia, la cabala, l’ars reminiscendi e la cosiddetta ‘magia naturale’ che al tempo di Ficino e Agrippa si considerava una sorta di scienza delle scienze. Il contenuto di quelle carte non è solo un prodotto dell’immaginazione, si sviluppa piuttosto in contesto che vedeva le arti e le scienze come discipline strettamente legate le une alle altre, interdipendenti. L’arte non è che una delle molte porte attraverso cui si può accedere al mondo delle idee e conseguirne la conoscenza, il gioco è uno degli strumenti didattici che Platone considerava fondamentali nella formazione del filosofo. Molto più di semplici immagini allegoriche dunque. Non stiamo a seguire le sorti di questo nuovo campo d’indagine, sappiamo che ancora oggi nel mondo accademico si richiamano a questa ‘gaia scienza’ diverse discipline, dalla semiotica alla psicologia, dall’ermeneutica alla fisica quantistica, non c’è bisogno di abbandonarsi al vano delirio del ciarlatano che pretende di leggere nelle carte quando pioverà.
A conferma di quanto detto finora, basterà ricordare l’impiego delle carte a fini squisitamente poetici e letterari, che autori come il Bembo, l’Aretino, lo stesso Boiardo, praticavano componendo sonetti, ottave e canzoni all’improvviso, a partire dalla pesca casuale di Tarocchi. Una forma di narrazione combinatoria estremamente fine, elaborata e diffusa nelle accademie intellettuali del tempo, dove il gioco passava alquanto la misura del disimpegnato intrattenimento da osteria e prevedeva uno sviluppo di competenze nell’interpretazione dei simboli riprodotti sulle carte, non dissimile da quelle che a partire dal Settecento verranno a svilupparsi come pratica di vaticinio consapevole. La differenza rispetto all’approccio del cartomante sta solo nel fatto che quest’ultimo pone alla base della lettura una corrispondenza tra la pesca degli Arcani e il dipanarsi di un futuro che si presume determinato in partenza secondo una visione fatalistica del destino, nella quale l’arbitrio umano è quasi irrilevante. Nel gioco letterario, manca questa corrispondenza tra la pesca delle carte e il ‘tempo che farà domani’. E’ piuttosto la mente umana a tessere un discorso che possa unire tra loro questi frammenti di antica sapienza, per produrre un significato che torni alla realtà con un contenuto in grado per l’appunto d’insegnare intrattenendo. In questo senso possiamo considerare i Tarocchi come un compendio di immagini agenti sapienziali, un catalogo di simboli che permette alla nostra mente di uscire dalla zona di confort e la obbliga a cercare nuovi percorsi di associazione tra le idee.
Bibliografia
Berti, Federico, Memoria. L’arte delle arti. Bologna, Streetlib, 2022
Prima della tecnologia e dell’industria cartiera si conoscevano altri giochi di tessere simili al Domino o al Mahjong cinese, che a loro volta rimandavano a tradizioni più antiche, legate agli oracoli e alla divinazione: da un lato l’I Ching che sappiamo aver circolato in varie forme nella Spagna posteriore all’anno Mille, dall’altro la filoofia pitagorica ed ermetica che abbiamo visto essersi sviluppata nel Mediterraneo a partire dal VII secolo, ispirandosi alle religioni dell’età del bronzo. La Sibilla cumana ad esempio scriveva i propri responsi sopra le foglie e poi le rimescolava, imponendo al consultante l’onere di porle in sequenza dando loro un senso. Questo esempio è analogo alla mantica nei tarocchi moderni, dalla cui stesa casuale l’interprete è chiamato a elaborare una propria sequenza narrativa.
Pietro Aretino menziona i Tarocchi nel Sonetto XXXII della Pasquinata per l’elezione di Alessandro VI, pubblicato per la prima volta nel 1521, dove la scelta del nuovo papa è affidata proprio alla pesca di una carta. Anche il Boiardo si concede un esercizio di narrazione combinatoria nei suoi Cinque capituli sopra el Timore, Zelosia, Speranza, Amore et uno Triompho del Mondo, 1523.
La maggior parte dei giochi di carte richiede richiede disponibilità al calcolo matematico, all’insiemistica, al ragionamento deduttivo e induttivo, all’empatia, ma non è soltanto questo a renderli un efficace strumento di mnemotecnica. Quel che li caratterizza piuttosto è l’associazione ai numeri di figure simboliche evocative, quel suggestivo, visionario compendio di immagini agenti rappresentato dalle figurazioni riprodotte sulle carte e il complesso equipaggiamento semiotico elaborato in secoli di speculazione filosofica intorno ad esse.
Ghione, Marco, I tarocchi nel secolo dei Lumi, Quaderni di Minerva 1 2018, pp. 87-96.
Nell’operazione storica che progressivamente rende i tarocchi degli strumenti di divinazione e di operatività magiche, a parere di chi scrive si perde qualcosa di essenziale. Dietro i fumi dell’occultismo ottocentesco, ormai vincolata a numerosi codici magici e simbolici in via di formazione e in genere incerti, la potenza evocativa delle carte rispetto al Rinascimento dell’ ars memorandi sembra in effetti perdere qualcosa.
Folengo, Teofilo, Caos del Tri per Uno, in: Opere italiane, Bari, Laterza, 1911
Non aveva nulla a che fare con la mantica, ovvero con la previsione del futuro, , serviva piuttosto come un addestramento all’immaginazione critica, un gioco d’improvvisazione poetica molto diffuso a corte per comporre versi, ritornelli e sonetti in base alla casuale pesca di carte. Vi si dedicarono personaggi come Pietro Bembo, Francesco Berni, Pietro Aretino.