Garibaldi fu tradito. Spartaco, Romanzo. Cap.2

Garibaldi fu tradito. Spartaco, Romanzo di Federico Berti

Federico Berti, Spartaco

Cap.2, Garibaldi fu tradito

Romanzo di Federico Berti

Le gocce di pioggia sferzavano il viso come l’acqua santa scagliata dal prete coll’aspersorio: una benedizione violenta, rabbiosa, cadeva su Roma allagando le strade e ingrossando il fiume. L’acqua tintinnava sui tetti di ardesia, gocciolava dalle grondaie, tamburellava sui vetri, sciabordava mulinando nelle pozzanghere. Deserte le strade, solo qualche mendicante cercava riparo sotto le arcate di un portico, nell’androne di un cortile, trascinandosi dietro l’anima dannata che pace non trovava nel suo inesorabile peregrinare verso il nulla.

Nell’ombra una minuta figura percorreva il viale alberato. Malamente coperta da una mantella fradicia, la chioma ribelle che le ricadeva sulla fronte, occhi vivaci, dita sottili, Sibilla aveva nove anni e nonostante l’età una lunga storia dietro le spalle. Di suo padre ignorava se fosse volato nel cielo come aveva sentito dire al prete, sprofondato in terra come malignavano i più, o se vivesse in ogni luogo un’esistenza malinconica, sospesa tra i mondi. Sapeva solo che era stata sua madre a raccoglierlo in una pozza di fango misto a sangue, vittima di una rissa da strada. Il gioco d’azzardo se l’era mangiato vivo. Da quel giorno la donna non aveva mai più proferito parola e trascorreva le sue giornate davanti alla finestra della cucina, con lo sguardo perso in pensieri troppo evanescenti per mostrarsi alla coscienza.

La piccola non aveva mai conosciuto i privilegi perduti dal suo casato, forse proprio l’essere nata in miseria l’aveva preservata almeno in parte dal tormento di chi, dopo aver masticato per un po’ la foglia del benessere, è costretto a sputarla, rivedendo le proprie aspettative dalla vita. Lei no, quand’era nata il barone aveva già perso tutto, questo forse la rendeva più forte nell’affrontare quella vita assurda che le era toccata. Sibilla vendeva per la strada qualsiasi cosa transitasse per ventura dalle sue piccole mani innocenti: spille d’avorio, pettini spigolati dagli scarti delle fabbriche, candele, fiammiferi, trecce di paglia, piccoli beni voluttuari che riceveva in elemosina da qualche istituto di carità e quando non trovava di meglio, fiori di campo da lei stessa raccolti. Quella sera, la bambina percorse il viale alberato sotto la pioggia battente, fino alla scalinata cinta dal marmo di una balaustra non più elegante come un tempo, per andarsi a riparare sotto una tettoia e da lì scrutare l’interno della villa attraverso il vetro.

Il conte Aurelio Spinelli aveva invitato a quel ricevimento singolare alcuni tra i notabili dell’alta società romana nel suo palazzo che per decenni aveva rappresentato un’armoniosa combinazione di grazia e splendore, ma che mostrava ormai i segni di una decadenza ineluttabile. I tendaggi in tessuto fine ingialliti dal sole e dal fumo del tabacco, l’argenteria opaca, i cristalli sfumati, le ceramiche sbeccate, il velluto delle poltrone unto o macchiato dal nero caffè delle colonie, mettevano a nudo un gusto senza dubbio raffinato, ma anche il desiderio di mostrarsi un po’ al di sopra dei propri mezzi. La luce tenue ristagnava a mezz’aria, gli invitati sorbivano vini speziati, accompagnandoli con stuzzicanti capricci d’importazione. Il conte aveva riunito intorno a sé una variegata compagine di commercianti, imprenditori, finanzieri che si lisciavano il pelo a vicenda. Impreziosiva il quadro un ministro del regno, un cardinale e un paio di taglieggiatori abbastanza credibili da possedere almeno un abito da sera.

Ciascuno di quei predatori si compiaceva di esibire per l’occasione gli stracci più eleganti che potesse riesumare dal guardaroba, costosi orologi e pizzi finemente ricamati alle mostrine, più per impressionare che per piacere. La funzione del dettaglio era distogliere dalla sostanza di un benessere apparente, ostaggio inesorabile frutto di un’economia troppo instabile per garantire un futuro. Un giovane e valente pianista eseguiva romantici preludi dal repertorio di Verdi, Bellini, Offenbach e Poulenc. Quando il pianoforte a coda iniziò a martellare le prime note pareva quasi che la musica volesse materializzarsi nell’aria come uno sbuffo di vapore, in cui sembravano prendere forma branchi di cavalli alati danzanti. Aleggiava una rara armonia nel fumo dei sigari mosso dal respiro dei presenti.

Un sottile mormorio si diffuse d’un tratto nella stanza, simile al sibilo di un serpente. Qualcuno aveva appena commentato con malizia: “Pessimo gusto, scelta imbarazzante!”. Non comprendendo la ragione di tanto sdegno, il pianista continuava a suonare una struggente barcarola francese, come da programma. “Per favore, non questa…”, lo interruppe con voce ferma la padrona di casa. Si udì un sommesso brusìo tutt’intorno, parole mormorate appena fra i volti ravvicinati, tra cui Ermete colse un vago riferimento alla battaglia di Mentana e altri dettagli che non riusciva a connotare pienamente. Intervenne il conte: “Mia cara, il nostro cuore non si darà mai in pace, ma la musica non ne ha colpa. Lascia che l’officiante possa compiere l’opera per noi e per i nostri ospiti”. La donna si ricompose e lasciò la stanza, accompagnata dall’uomo che uscendo con lei esortò il pianista a riprendere il concerto dal brano successivo.

Ermete non commentò. Era rimasto in piedi composto in silenzio a pochi passi dalla porta della sala, osservando la scena: conosceva alcuni degli invitati da molti anni, erano stati anche loro come lui giovani cacciatori di farfalle, avevano rincorso col retino in pugno idee che allora volavano libere nell’aria, e quando riuscivano ad afferrarne una erano pronti a difenderla. Compagni nella buona sorte e nella sventura, nelle parate festose e nelle crudeli carneficine, avevano diviso il pane, la polvere, si erano ricamati l’un l’altro le braccia d’oro sulla camicia. Ermete sospirò profondamente, scrutando quei volti non più giovani e non più innocenti. Gli stessi eroi che avevano liberato a cannonate e baionette l’Italia, s’erano poi ridotti a sparare in petto agli italiani pochi anni dopo, da oppressi erano diventati oppressori esercitando il potere con una ferocia implacabile: chi aveva un interesse da difendere, non esitò a tradire la stessa patria per cui aveva combattuto. Gente che ormai rispondeva agli scioperi ordinando ai gendarmi di sparare sulla folla, aveva ora il coraggio di piangere lacrime di falsità per una barcarola francese nel programma del concerto.

Ermete distolse lo sguardo dal pianoforte, dove le dita esperte avevano smesso di danzare tra le note come i riflessi della luna sulle acque del Tevere. Nella sospensione tra un brano e l’altro del concerto, il suo sguardo fu attirato dal rumore leggero e costante della pioggia che bussava al vetro, quasi volesse irrompere nella sala. Sorrise tra sé nel notare la continuità fra la musica dell’uomo e quella della natura. Nel voltarsi in direzione della finestra, fra le gocce che scivolavano disordinate, gli parve di riconoscere un volto familiare: Sibilla era venuta a cercarlo proprio lì, in casa del conte! Dovevano esservi motivazioni importanti per spingerla a tanto. Forse qualcuno l’aveva importunata nella strada, o forse la madre non stava bene, o qualcos’altro di spiacevole era accaduto. Dalla tragica morte del barone, Ermete aveva scelto di prendersi a cuore la sorte di quel che restava della sua famiglia, nel nome dell’antica amicizia che legava Spartaco a Guerrino, il figlio del defunto aristocratico al suo. Non appena il pianoforte riprese il concerto con il Can Can di Offenbach, Ermete posò il calice, lasciò la stanza con discrezione e si incamminò lungo il corridoio, affrettando il passo verso la piccola Sibilla. Qualunque fosse la ragione che l’avesse spinta alla villa del conte, a quell’ora della notte, con la pioggia e i fulmini che ferivano il cielo, lui non l’avrebbe lasciata sola.


Tratto da Federico Berti
Spartaco, Romanzo


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