Infoterapia. Storie di contro-spionaggio. Donne che parlavano otto lingue.
In collaborazione con Villa Maia
via Altura 7, Monghidoro (Bologna)
Tratto da Federico Berti (acd):
Gli anziani raccontano
Si riporta l’intervista a un’ospite della casa di riposo, che racconta una propria esperienza giovanile nei servizi segreti fascisti prima, nella Resistenza poi. Secondo la sua testimonianza, venne destinato minorenne al corso di formazione per i gruppi d’azione del contro-spionaggio. Questa sua missione durò solamente due anni, poi con l’8 settembre passò agli ordini del C.L.N.
Donne che parlavano otto lingue
“Avevamo anche a vantaggio nostro degli osservatori a distanza, stavano per scoprire quelli che riuscivano a scoprire te. Erano tutti agenti del controspionaggio. C’erano belle ragazze che sapevano far tutto, guidar tutto, prendere il treno com’è capitato anche a me una volta montar su in stazione mentre era fermo pronto per partire, è partito e lei senza accorgersene, senza niente, han bloccato i semafori perché le serviva solo da uscire per la stazione ed entrare nell’altra, dove c’era l’altro contro-spionaggio. Allora doveva scendere prima, un complesso di cose che è difficile spiegare, era una ragnatela d’informazioni che bisognava tante volte saperle valutare seriamente se non erano balle che facevano apposta per imbrogliare. Perché bastava un servizio di una donna per vincere una battaglia! Si facevano conoscere così come ballerine, ma c’era altro da ballare lì con loro. Donne e uomini preparati al cento per cento, non dovevan mai scoprirvi. Neanche la più semplice cosa, neanche cosa mangiavi. Dal saper cosa mangiavi o cosa bevevi il contro-spionaggio poteva già individuare dove andavi, con chi andavi, con chi eri. Un groviglio di gente preparati a tutto. Si parlava in codice, “Io ho fame. Ho sete. Ho sonno. Devo andare a pranzo, a cena”. Magari poteva significare avere una riunione di gente del contro-spionaggio. Si parlava tutto in codice. Il codice ogni quindici giorni cambiava. Bisognava stare molto attenti alle donne del controspionaggio. Sapevano far tutto. Parlavano da sei a otto lingue. Dottoresse già laureate che dopo andavano a fare questi corsi, ci volevano con la lingua aperta bene perché era dal fisico di una donna se era bella che poteva cominciare delle relazioni. Bisognava stare attenti a parlare, si preparava i rapporti alle riunioni, lei sapeva già con quale spia andava. E’ un groviglio, un’immensa prontezza di spirito inventare una cosa lì per lì quando vedi che sei mezzo scoperto cerchi d’imbrogliare la faccenda, ma con quella gente è difficile. Eravamo in un locale segreto in città, era in mezzo a due case di donne che facevano la vita. Si affittava lì. Chi veniva dagli altri paesi voleva andare a visitare le case di tolleranza e quando noi capitava con loro si cercava di tirare il più possibile, era difficile ma avevamo altri quattro agenti di appoggio. Loro dicevano: “Dove sospetti?”. Donne che non avevano paura di niente. Avevamo un direttore, si passava solo con lui, con nessun altro, neanche col fratello, solo questa persona poteva parlare con noi e dire quello che sospettavamo. O meglio parlare si parlava ma di altre cose, roba militare, della guerra che era in corso. Una delle più famose spie, la famosa Mata Hari, in quel periodo serviva delle persone così e lavorava appunto per l’Italia. Feci la domanda che volevo prendere il brevetto di pilota, venne accettata, c’era la scuola a Gaeta, a Tremezzano tra… Aspetti pure… Sopra Venezia,Treviso, avevamo l’appoggio lì. Se succedeva qualcosa dovevamo metterci in contatto con loro. Non potevamo fare niente di nostra testa, solo la difesa, basta. Cercavano di scoprire l’ingegner Bergamini che stava mettendo a posto un motore di aereo, il famoso che dopo è venuto fuori a reazione, è nato di lì nel ’36. Mussolini gli servivan degli aerei veloci che portassero delle bombe più pesanti, di cinquemila libbre. Per porti, aereoporti e navi. Pigliavan di 14 anni, due anni di preparazione e andavi a far parte dei gruppi di azione per il contro-spionaggio. Sono stato due anni, sono uscito circa all’inizio della guerra. L’ho scelto io perché le nostre fotografie erano già in mano al contro-spionaggio nemico. Allora ce ne volevan dei nuovi, eri già un bersaglio. Lavoravamo nei motori, per Campanini. I russi avevan già tutti i modelli, abbiam dovuto rifarlo nuovo perché bastava che il nemico sapesse già le formule degli arei cosa adoperavano, il carburante, quante bocche da fuoco, quante bocche portavano, al nemico interessavano quelle cose lì. L’8 settembre ha scompigliato tutto, ha messo in forse quel che si era prodotto: quel che chiamavano il nemico già conosceva i segreti dei nostri aerei, come due fratelli che agiscono in coppia e da un momento all’altro ognuno va per conto proprio e uno non sa dell’altro. Mi son dato disperso, son rimasto in montagna vicino a Monte Battaglia, eravamo difesi dai partigiani. C’è stato a Bologna il direttore Campanini aveva disertato anche lui, tutti quelli che erano militari han piantato lì e sono andati a casa”.
Tratto da Federico Berti (acd), Gli anziani raccontano