Dall’ospizio alla casa di riposo. Breve storia di un sistema concentrazionario
Dall’ospizio alla
casa di riposo
Breve storia di un
sistema concentrazionario
Articolo di Federico Berti
Il fenomeno delle case di riposo o residenze sanitarie assistite viene considerato relativamente recente. Un tempo l’aspettativa di vita media era ridotta, in pochi raggiungevano la vecchiaia. Si ritiene che a partire dal Seicento si venga a sviluppare una generica preoccupazione per gli emarginati, ma per lo più negli ospizi e nei ricoveri trovano posto principalmente poveri e mendicanti, non tanto e non specificamente anziani. Nei due secoli successivi ancora l’anziano viene essenzialmente preso in cura dalla famiglia stessa e ricorre all’ospizio solo quando non abbia nessuno che possa tenerlo in casa, ma ancora questo si verifica piuttosto raramente.
Solo nella seconda metà del Novecento, il progresso della medicina e la società del benessere portano a un allungamento notevole della vita media, all’aumento nel numero degli anziani non autosufficienti e a una minor disponibilità nelle famiglie di prendersene cura dovute a uno stile di vita diverso da quello della famiglia allargata di un tempo. Nasce l’idea della RSA negli anni ’80 per venire incontro non più solo al ricovero dell’anziano, ma anche allo stimolo delle sue capacità relazionali, del suo benessere psichico e più in generale a una buona qualità della vita. La residenza sanitaria assistita si sviluppa dunque nell’ambito delle case di cura, destinate a chi può permettersele, il cui accesso è facilitato dal sostegno pubblico alle famiglie.
La svolta si ha con la Legge Finanziaria del 1988 che inaugura un piano decennale di investimenti sulla sanità e prevede la disponibilità di 140mila posti in residenze socio assistenziali, un provvedimento cui seguiranno nel decennio successivo nuove norme che definiranno sempre più nel dettaglio il ruolo assolto da queste strutture e il livello adeguato di cure da prestarvi. Nel 1992 il Progetto Obiettivo Anziani introduce alcuni concetti chiave come l’approccio globale al paziente che tenga conto anche delle sue relazioni, l’integrazione socio-sanitaria e la preservazione delle capacità residue. Dall’ospizio per emarginati si passa quindi a una struttura extra-ospedaliera riservata a persone non autosufficienti, si definiscono standard di qualità, dimensioni ottimali, limite a 60-80 ospiti, vincoli nel posizionamento a zone possibilmente urbane e ben collegate dal trasporto pubblico, assenza di barriere architettoniche e così via. L’Enciclopedia Britannica definisce la casa di cura (nursing home) come una
“Struttura destinata alla cura, solitamente a lungo termine, di pazienti che non sono abbastanza gravi da aver bisogno di un ospedale, ma nemmeno abbastanza autosufficienti per restare a casa propria. Storicamente, molti dei residenti erano anziani o malati con disabilità irreversibili e l’assistenza medica o infiermeristica era minimale. Oggi le case di cura hanno un ruolo più attivo nella cura della salute, aiutando i pazienti a tornare in casa propria, o tutt’al più a convivere con un familiare. Queste strutture assolvono il compito di decongestionare le strutture ospedaliere destinate a problemi più gravi, migliorando le prospettive dei pazienti con disturbi cronici. In ogni caso la qualità delle cure può variare sensibilmente, e il rischio di abusi potenziali è sempre dietro l’angolo”.
Fino alla prima metà del Novecento la cura degli anziani era un problema relativo e andava a confluire nell’ambito più vasto della cura agli emarginati. Finiva nel ricovero chi non aveva una famiglia in grado di tenerlo in casa e chi non poteva permettersi una servitù personale per accudirlo, dunque l’anziano non autosufficiente, povero e solo. L’ospizio veniva gestito generalmente da confraternite religiose, istituzioni caritatevoli, ed era per lo più carente di servizi, in condizioni igieniche tendenzialmente precarie, l’anziano stesso condivideva lo spazio con mendicanti, alcolizzati e pazienti affetti da disturbi della personalità o come si diceva allora, folli. Questi ricoveri venivano incontro al problema di togliere i mendicanti dalle strade, per esigenze di ordine pubblico, prima che al bisogno di cure.
Sappiamo che anche nell’antica Grecia, al tempo di Solone e Pisistrato, esistevano strutture di questo tipo, che fin dall’antichità vennero a porsi come strutture di tipo concentrazionario, più simili a dei bagni penali che a degli ospedali veri e propri. Michel Foucault nella sua Storia della follia descrive in modo particolareggiato la nascita del manicomio come ospedale destinato ai disturbi psichiatrici, che finisce per fagocitare ogni sorta di indesiderabili riducendoli in condizioni spaventose, con metodi coercitivi e punitivi che oggi sarebbero motivo di indignazione.
Gli anziani soli, non autosufficienti, emarginati, si muovono nella storia in questo variegato panorama di uomini e donne ridotte a ombre, privati di una personalità giuridica. A partire dal XVI secolo addirittura alcune di queste strutture diventeranno delle case-lavoro, gli ospiti delle quali verranno ulteriormente sfruttati dal sistema produttivo introdotto dalla seconda rivoluzione industriale. Dagli orfani agli anziani, attraversando poveri, mendicanti, ubriaconi, reduci di guerra, folli e ogni sorta di rifiuto della società. Tra Settecento e Ottocento, l’amministrazione di queste strutture passerà alle istituzioni pubbliche e private, verrà laicizzata, sebbene si continui per lungo tempo a ricorrere all’ausilio di ordini religiosi con funzione ausiliaria nell’assistenza.
Se dovessimo tracciare una storia delle case di riposo potremmo risalire al 1355, quando a Seviglia nasce l’Amparo delos Vejos, ovvero il ricovero degli anziani, considerato la più antica casa di riposo in Europa, dedicata fin da allora al “Sostentamento e al dono della onorabile senilità e venerabile vecchiaia”. Negli Annali di Ortiz de Zúñiga (1677) è menzionato l’Hospital de San Bernardo, nella parrocchia di San Juan de la Palma fondata da una confraternita religiosa le cui regole formalizzate nel XIV secolo e riformate nel 1736 sono un documento utile a ricostruire la storia della cura degli anziani.
Interessanti i requisiti per esservi accolti, poiché bisognava avere più di sessant’anni, essere originari di Sevilla, sani e in buona salute, essere stati benestanti e poi caduti in povertà. Nativi della città dunque, non immigrati o acquisiti per lontana parentela, ma soprattutto auto-sufficienti ed appartenenti alle classi più elevate. Una struttura che oggi definiremmo classista e razzista, pensata e amministrata dal clero cattolico spagnolo. Durante la dittatura di Franco l’istituto cade in disgrazia, Morales Padròn lo descrive in Sevilla Insolita come un patio freddo, diroccato, buio, senza uccelli, infestato dai ratti. Nel 1968 viene definitivamente svuotato e saccheggiato dalle stesse amministrazioni pubbliche. Solo nel 2014 verrà nuovamente restaurato e al suo interno rinascerà un Centro diurno di partecipazione attiva che organizza corsi, convegni, attività culturali destinate agli anziani.
In conclusione il concetto stesso di assistenza agli anziani viene a svilupparsi nell’ambito più complesso e controverso dei sistemi concentrazionari destinati a togliere dalle strade mendicanti, emarginati, folli, per convogliarli in istituti più simili a bagni penali che a case di cura. Verso la metà dell’Ottocento si perverrà a una laicizzazione di queste strutture, nella prima metà del Novecento alla specializzazione del personale e a nuove forme di regolamentazione, che tuttavia non interverranno in modo significativo sui sitemi coercitivi e di contenzione caratteristici dei manicomi.
Solo con le novità introdotte dal sistema sanitario nazionale nella seconda metà del Novecento, con la chiusura dei manicomi e la riforma delle residenze sanitarie, si perverrà a una ridefinizione dei bisogni e delle competenze di queste strutture, non più concepite per ‘togliere dalla strada’ gli emarginati o peggio ancora sfruttarne la manodopera servile come avveniva nelle case lavoro descritte nei romanzi di Dickens, ma come residenze sanitarie assistite, preposte alla cura del paziente e alla valorizzazione delle cosiddette ‘capacità residue’, nel quadro più generico di un ripristino della dignità personale anche nell’ultima fase della vita del cittadino.