Ribelli. La legione straniera. Romanzo, eBook.
Sovversivi
Odissea in Etiopia VI
Marsiglia, 1897.
La nave entrò nel porto il 2 febbraio alle prime luci dell’alba. Era il giorno di San Vittore, quel giovane soldato romano condannato a morte per essersi rifiutato d’uccidere, per aver rinnegato l’idea della guerra imperialista. Venne frustato a sangue, mutilato e fatto a pezzi. S’erano impadroniti del suo corpo, ma non avevano ottenuto la sua obbedienza; Ermete ripensò al buio delle carceri che aveva provato in prima persona al tempo delle guerre d’Indipendenza, celle sporche e fredde condivise insieme ad avvocati, giornalisti, professori. Gente di cultura che passava le sue giornate componendo canzoni a mente guardando il cielo tra le sbarre. “Vieni con me, devo presentarti una persona”. Disse la bambina. Scesero dal mercantile attraversando il porto già affollato, la grotta dei Martiri non era lontana e nonostante l’abbazia del santo fosse stata distrutta un centinaio d’anni prima, il popolo era vestito a festa per rendere un tributo alle potenze del cielo. In ogni angolo della città si preparavano i fuochi per grigliare la carne e servire del buon vino speziato alla francese. “Quel ragazzo col berretto, andiamo!”. Lo prese per mano attraverso la folla che si radunava nelle strade.
Un legionario in congedo.
Bello come il sole Arduino Viacante, alla rotta di Adua c’era anche lui. “Potrebbe aver notizia di tuo figlio Spartaco” disse la bambina, tirandolo per un braccio. Il vecchio Ermete non osava chiederle come sapesse quelle cose, del resto ovunque lo stesse portando era meglio che finire sgozzato in qualche vicolo romano. Non fece in tempo a pensare queste cose che la piccola fioraia aveva raggiunto Arduino fuori dall’osteria, offrendogli con insistenza dei fiori; il Musolesi ne approfittò per intervenire scusandosi con lo sconosciuto e rimbrottarla bonariamente, poi tentò d’iniziare una conversazione. “Italiano anche voi?”. Aveva notato le medaglie appuntate sulla giacca, il ragazzo non sembrava mostrarle con particolare orgoglio. In attesa che la fanfara aprisse le celebrazioni entrarono nell’osteria, si fecero servire del vino italiano. Parlarono di quelle medaglie.
Il massacro di Adua
“Tu mi fai ricordare un’esperienza dolorosa, quel terribile viaggio attraverso le montagne d’Etiopia. E’ passato un anno appena. L’orrore delle rappresaglie contro gli uomini leone, le spedizioni contro il Ras Mangascià, le incursioni nel Tigrai”. Parlava con discrezione sporgendosi verso l’altro per non dover alzare la voce nella confusione della caffetteria. Il glorioso Arduino aveva marciato fra le montagne ai cancelli del paradiso, convinto d’affrontare un manipolo di selvaggi armati d’arco e frecce. S’era trovato di fronte un esercito imponente e ben equipaggiato, con fucili italiani e francesi. “Baldissera aveva le mappe disegnate coi piedi. Tre colonne di soldati si trovarono disperse, isolate ai confini fra questo mondo e quell’altro. Mentre il Negus riuniva le tribù la regina Taitu aveva fatto presidiare tutte le sorgenti d’acqua, sicché fummo costretti a ingaggiare battaglia prematura in posizione di netto svantaggio. Una carneficina. Gli scampati al massacro vagavano senza meta nel terrore d’incontrare le milizie popolari, quasi più feroci dell’esercito nazionale”. Ermete Musolesi ascoltava con trepidazione le parole di quel reduce, sperando potervi trovare qualche indizio per ricostruire la sorte del figlio Spartaco; non azzardava interrompere il racconto per non turbare lo slancio del narratore e non insidiarlo con domande che potessero destare inutili sospetti. Ma l’idea che il proprio sangue fosse caduto in mano ai partigiani dell’Africa Orientale, non gli dava pace. “Ho avuto fortuna. Un pastore mi nascose nella sua capanna qualche giorno. Una stuoia per dormire, acqua pulita da bere, un po’ di formaggio. La cosa che più mi colpi di quella gente è che non sacrificavano a chissà quali demoni ma pregavano Gesù, la Madonna, i profeti e San Giorgio. Appena mi fu possibile, ripresi il cammino orientandomi di notte col cielo stellato, nel timore delle bestie feroci e delle bande irregolari che saccheggiavano la zona”. Il ragazzo raccontò la sua storia con passione misurata, era riuscito a congiungersi con una guarnigione italiana dalle parti di Asmara che l’aveva riportato in Italia, sbarcandolo in segreto nemmeno fosse un ladro; da allora, congedo permanente. Come dire adesso arrangiati.
Le ombre dei dispersi
Gli occhi dei due forestieri si cercavano nella penombra della caffetteria, come per capire se fosse il caso di fidarsi uno dell’altro. Poi il ragazzo guardandosi intorno sussurrò con un fil di voce: “Hanno arruolato volontari tra socialisti, anarchici e delinquenti comuni, di loro non si sa più nulla; ho sentito parlare d’un avvocato italiano a Porto Ferraio che n’ha difesi parecchi di questi sovversivi. Hanno approfittato della confusione per entrare in clandestinità: disperso, vuol dire che il tuo nome è pulito. Sei morto, capisci? Un’ombra”. Era rimasto nel vago il ragazzo. Si trovava a Marsiglia solo di passaggio, diretto in Russia per un lavoro che gli avevano raccomandato certi amici, ma non volle dire altro. D’un tratto un tripudio di trombe, tamburi e clarinetti aveva acceso la festa di San Vittore all’uscita dalla messa, la gente si riversava nelle strade cantando e ballando. “Senti” disse allora Ermete Musolesi, che ormai non temeva quella giovane ombra decorata al valor militare: “Muoviamoci di qua, devo parlarti”. I due uscirono in strada, con la bambina per mano che saltellava al loro seguito; si fecero largo tra la folla diretti verso una locanda nelle vicinanze del porto.