Quello che crediamo di sapere su Silvia Romano. Rassegna stampa.
Quello che crediamo
di sapere sul caso
di Silvia Romano
Rassegna stampa
di Federico Berti
Non ho seguito molto il caso di Silvia Romano durante la sua prigionia e per questo motivo mi ero ripromesso di non parlarne. A dissuadermi è stata la violenza che si è abbattuta su di lei questi giorni, sconcertante e immotivata. Volevo capire meglio dove finisce la realtà e dove inizia il delirio di quelli che impropriamente si continuano a voler definire ‘odiatori’, quando la natura di queste intimidazioni è ben altra, la conosciamo tutti. Ho raccolto una rassegna stampa sul caso, veramente complesso e devo dire che non l’ho fatto con piacere. Ma andiamo con ordine, un passo alla volta. Cerchiamo innanzi tutto di capire cosa sappiamo veramente di questa storia. Attenzione, non quello che ‘crediamo’ di sapere, ma quello che davvero sappiamo, quello che potremmo sostenere ad esempio in un’aula di tribunale senza temere una denuncia per diffamazione. E’ un metodo, quello che adotteremo nelle brevi note che seguono.
Tra Kenia e somalia
Sappiamo che Silvia Romano si era laureata con una tesi sulla tratta degli esseri umani e che aveva iniziato a collaborare con una Onlus italiana, partendo per il Kenya. Quattrocento chilometri da Nairobi e ottanta da Malindi, un’area molto pericolosa al confine con la ‘Somalia bella’, interessata dal fenomeno del bracconaggio, in particolar modo il traffico dell’avorio, ma soprattutto, ora che sul mercato l’avorio ha perso valore per le nuove restrizioni sulla caccia alle specie protette, luogo di reclutamento per varie milizie legate alla pirateria nel Golfo di Aden, l’imboccatura del Mar Rosso, dove passano le rotte commerciali per il vicino e lontano Oriente. Mi ricordo che si parlò molto di questi pirati somali al tempo dei Marò, perché la distanza (via mare) tra la punta del Corno d’Africa e le coste dell’India non è superiore a quella tra Spagna e Germania. Questo per dire che il villaggio non si trovava in un luogo sicuro. Questo possiamo dirlo, è confermato dalle indagini congiunte fra governo italiano e kenyota, nelle quali è stata coinvolta l’intelligence di entrambe i paesi.
Africa Milele non è un’ONG
Sappiamo inoltre che la Procura di Roma ha aperto un fascicolo sull’organizzazione per cui lavorava Silvia Romano, Africa Milele, che fino allo scorso ottobre non compariva come onlus al registro delle Agenzie delle Entrate delle Marche, non esiste nel registro della Prefettura di Pesaro e Urbino come fondazione o associazione con personalità giuridica in camera di Commercio, come società o simili. Solo un sito Internet, bilanci pubblicati e piccola polizza assicurativa insufficiente a coprire l’attività in zone a rischio. Non è dunque una ONG. La famiglia Romano ha interrotto i rapporti con l’organizzazione e la stessa Silvia, ascoltata dai magistrati romani al suo rientro in Italia, ha dichiarato di essere stata mandata ‘allo sbaraglio’, senza nemmeno una polizza per infortuni o malattia. Questi sono gli elementi su cui si stanno basando le indagini della Procura.
Non solo bracconieri
Sappiamo inoltre dai rapporti governativi che gli esecutori materiali del sequestro sono cittadini kenyoti di etnia somala, tutti meno uno, ritenuto il coordinatore delle operazioni, che invece è proprio cittadino somalo: Ibrahim Adhan Omar, arrestato in Kenya con un AK47 in mano, rilasciato dal giudice su cauzione, nonostante le forti remore del procuratore Alice Mathagani e dell’ispettore di polizia Peter Murithi, e poi scomparso nel nulla senza lasciare traccia. Sappiamo anche, dagli atti del processo, che lo scorso autunno è stato ascoltato un tale Juma Suleiman, un sarto del posto che pur con uno stipendio di 100 dollari al mese avrebbe pagato per l’amico Ibrahim cauzione per un valore complessivo pari a 26000 dollari in titoli di proprietà. Possiamo dire insomma soltanto che i mezzi e le risorse impiegate in quest’operazione, sono sproporzionati rispetto alla media delle bande locali, lasciando supporre il coinvolgimento di realtà più importanti.
Al Shabab non rivendica
Sappiamo inoltre che il coinvolgimento del gruppo terroristico Al Shabab è per il momento solo un’ipotesi non confermata dalle indagini, nel senso che non è ancora provata una relazione tra il rapimento di Silvia e la nota organizzazione, che dal canto suo non ha mai rivendicato l’attentato e anzi, è intervenuta di recente a smentire qualsiasi coinvolgimento diretto, negando di aver ricevuto un riscatto dal governo italiano e accusando peraltro la stampa di aver pubblicato un’intervista a un sedicente membro del gruppo, il quale risulta però deceduto da non meno di sei anni. Possiamo solo dire che l’attivista, dopo essere stata rapita nel villaggio di Chakama, riferisce di aver viaggiato per un mese a piedi nella foresta, dormendo all’aperto, e che la grotta in cui era stata reclusa in un primo tempo si trovava in Somalia, somala l’etnia dei rapitori e la cittadinanza di Ibrahim, somali i contatti telefonici nei giorni precedenti il rapimento.
Non risulta pagato un riscatto
Sul riscatto poi è stato detto tutto e il suo contrario, le prime indiscrezioni parlavano di un milione e mezzo di euro, ma solo perché in un caso precedente era stata sborsata quella somma, poi non si sa come s’è arrivati a parlare di 4 milioni. Non risultano però richieste da parte dei rapitori, o meglio non vi sono stati proprio contatti, nessuna trattativa, tanto che l’estate scorsa alcuni intellettuali avevano fatto pressioni sul governo italiano per desecretare le indagini sul caso di Silvia Romano, in merito alla quale non si sapeva più nulla dal Natale del 2018. Si temeva che fosse già morta. Non solo dunque non vi è stata rivendicazione da parte di Al Shabab, ma alla smentita dell’organizzazione si è poi aggiunta anche quella del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, cui fa seguito l’ipotesi che siano stati versati dei soldi tramite donazioni ad associazioni benefiche o simili, per mascherare il riscatto, ma al momento si tratta di pure e semplici illazioni: non esiste una denuncia, non esiste alcuna documentazione di supporto, solo un vago opinionismo populista. Allo stato attuale delle indagini, considerando il principio della presunzione d’innocenza che caratterizza il nostro sistema giuridico, nessun riscatto risulta mai né pagato, né rivendicato.
Non l’hanno liberata i turchi
Alle false notizie durante la prigionia, si aggiungono quelle al momento del rilascio. La stampa turca ha pubblicato immagini della ragazza con un giubbotto antiproiettile sul quale si vede un simbolo della Turchia, ma i servizi segreti italiani responsabili delle indagini sostengono che si tratti di un falso, quel giubbotto appartiene all’esercito italiano. Una polemica surreale, che dà conto di un atteggiamento ambiguo da parte della Sublime Porta, intervenuta nelle ultime fasi della liberazione. Il motivo di questa partnership è che da diversi anni Erdogan ha investito nelle infrastrutture somale, nelle scuole, negli ospedali, nella riorganizzazione dell’esercito e nell’addestramento dei soldati, proprio quest’inverno ha ricevuto un invito da parte del governo a visitare i propri giacimenti di petrolio. L’intelligence turca aveva i contatti necessari sul territorio somalo.
La conversione è ininfluente
Quante cose crediamo di sapere sul caso di Silvia Romano. Nel diario della prigionia la donna afferma di essere stata trattata con dignità dai rapitori, di essere stata nutrita e curata, di non aver subito violenze, di non aver avuto alcuna relazione sentimentale con nessuno dei sequestratori, né tantomeno di essere stata costretta a sposarsi. Tutte menzogne, dunque. La sua testimonianza, al momento inoppugnabile, è quella di una giovane donna che dopo alcuni mesi di sequestro, isolata dal resto del mondo senza aver mai visto in volto i suoi rapitori, o potervi scambiare una conversazione compiuta, ha chiesto di poter leggere il Corano e che questa lettura sostiene l’abbia portata a una conversione religiosa. Non possiamo dire se sia stata una scelta spontanea, oppure condizionata dalle pressioni psicologiche in cui si trovava, chi può dirlo? Forse nemmeno lei stessa. Considerate le premesse il fatto in sé è ininfluente, se teniamo in conto che non sappiamo nemmeno chi l’abbia rapita e per quale motivo, che non è stato mai rivendicato il rapimento da nessuno e che non risulta pagato alcun riscatto, che i rapitori sono dei bracconieri assoldati da qualcuno più grande di loro, di cui però non sappiamo nulla, la sua conversione è irrilevante ai fini dell’indagine. Si dovrebbe semmai risalire a chi pagò le due motociclette usate per il rapimento, ricostruirne la rete di relazioni, moventi, dettagli che speriamo emergano nel corso dell’inchiesta internazionale, attualmente in corso.
Non è incinta del sequestratore
In pratica la conversione di Silvia Romano non è probante di nulla, tanto più che lei per prima la considera una scelta personale, avvenuta senza nessuna costrizione. Al suo rientro nella civile e democratica Italia sarà tuttavia proprio questa scelta a costarle una serie di violenze inaudite. Un articolo di Vittorio Feltri su ‘Libero’ aveva già messo in circolazione subito dopo il rapimento diffamanti notizie circa le presunte relazioni sentimentali coi rapitori, ipotesi poi riprese dal ‘Giornale’ lo scorso autunno circa l’islamizzazione forzata (così l’hanno chiamata), addirittura attribuendole un matrimonio obbligato e il concepimento di un figlio del terrore, quando ancora non si sapeva nemmeno se fosse viva.
S’indaga per minacce aggravate
Vittorio Feltri è intervenuto di nuovo qualche giorno fa insinuando il dubbio di un riscatto pagato clandestinamente dal governo, immediata la reazione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni che accusano l’esecutivo di aver finanziato con il denaro del riscatto un’organizzazione terroristica. Speculazioni sulle ‘ragazze con la valigia’ di Africa Milele, chissa cosa trasportavano si dice. Partono le minacce a mezzo stampa, un consigliere leghista ad Asolo scrive nei social: “Impiccatela”. Un altro consigliere, sempre leghista, Simone Angelosante in Abruzzo paragona il ritorno della Romano col velo a un ebreo che torna da Auschwitz con la divisa nazista, il senatore Pagano, ancora una volta leghista, la addita in aula come neo-terrorista. E’ solo l’inizio, nel web circola un’immagine di lei sorridente a fianco di un ragazzo somalo con l’insinuazione che la vittima avesse una relazione con il rapitore, un’altra foto raffigura una donna nuda che cammina per strada, vestita solo di una borsa, anch’essa attribuita alla Romano. Viene lanciata una bottiglia contro la sua finestra, la procura apre un fascicolo nel fascicolo, indagando ignoti per minacce aggravate.
Sovranismo e attivismo
Questo noi sappiamo di Silvia Romano. Si è fidata delle persone sbagliate, è stata rapita non sappiamo da chi, liberata non sappiamo perché, reimpatriata dai servizi segreti italiani in collaborazione con l’intelligence turca, ha trovato conforto nella religione durante la prigionia, ma dai rapitori non dichiara di aver ricevuto alcuna violenza. Non quanta ne ha ricevuta dai suoi connazionali, rientrata in Italia. Sappiamo solo questo. Qualsiasi altra insinuazione è diffamatoria, passibile di denuncia. Viene da chiedersi il perché di questo inaudito linciaggio, la risposta è nell’ostilità conclamata, da parte del sovranismo internazionale, in aperta connivenza con le frange più estreme dei gruppi neonazisti e neofascisti, nei confronti di quell’attivismo militante che ha trovato piena formulazione nel variegato sistema delle ONG, erede della contestazione negli anni ’60-’70. Silvia Romano è solo uno dei tanti capri espiatori di questa propaganda liberticida. E’ riduttivo chiamarli ‘odiatori’. Sono fascisti e stanno facendo di tutto per destabilizzare il paese, forti di una visibilità finanziata da ingenti risorse di cui non conosciamo la provenienza, ma di cui sappiamo la destinazione: motori di ricerca e social networks. Forse le indagini dovrebbero ripartire da qui.