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Sara Maranelli, la Violetera di Bologna

Sara Maranelli la Violetera, Scultura in terracotta di Elisaberra Foresti

La Fatina dei Fiori di Bologna

Sara Maranelli, detta anche la Violetera

Tra i personaggi della strada che hanno lasciato un segno nella memoria dei bolognesi tra gli anni ’70 e l’alba del nuovo millennio, ricordo come fosse ieri l’indimenticabile Sara Maranelli, che tutti chiamavano affettuosamente la Fatina dei fiori, o anche Fatina del bosco. Un donnino fragile, delicato, un po’ fuori dal mondo, che sembrava uscita da un film della Disney; per un quarantennio ha attraversato il centro storico della città di Bologna con un cesto di fiori legati in mazzetti con nastrini di stoffa, sempre vestita in colori sgargianti, intonati alle palette cromatiche delle sue composizioni floreali. Una specie di ikebana semovente, animato, disarmante nella sua innocenza e semplicità.

Sara Maranelli era nata nel 1926 a Castel D’Aiano, un piccolo borgo dell’Appennino bolognese, quello dove si trova al leggendaria tana dell’uomo selvatico. Fin da bambina si racconta di lei che trascorresse molte ore nei boschi, nei prati, lungo il torrente, dove iniziò quel suo rapporto personalissimo con i fiori cui sarebbe stata poi associata per tutta la vita. Non si sa per quale motivo abbia incominciato, a partire dagli anni Settanta, potremmo dire ‘nel mezzo del cammin’ ovvero intorno ai trentacinque anni, a raccogliere fiori nei prati intorno a Castel d’Aiano portandoli a Bologna, per venderli. Prendeva il treno a Vergato e durante il tragitto (che non era ad ‘alta velocità’ come oggi) preparava nello scompartimento i suoi mazzetti, le sue composizioni. Divenne una presenza costante nelle trattorie e nelle osterie bolognesi.

Sara Maranelli si presentava con abiti dipinti a mano, lunghi scialli, cappelli vistosi, sempre in tono con le tinte delle sue composizioni; era una tavolozza vivente che solo a vederla metteva allegria: il viola delle violette, il giallo delle primule, il rosso delle bacche di pungitopo, l’argento delle monete del Papa, erano protagonisti delle sue oniriche apparizioni. La chiamavano anche ‘Violetera‘ in ricordo dell’omonima canzone di Jose Padilla del 1914, che Milva reinterpretò nel 1981 al culmine della sua parabola di celebrità sul territorio bolognese. Profumava di natura rigogliosa, richiamava a chiunque la vedesse un ideale di armonia con l’ambiente, in un momento storico peraltro caratterizzato da straordinaria fioritura (è il caso di chiamarla proprio così) dei movimenti ambientalisti. Sette anni dopo la sua dipartita da questo mondo di storture e inganni, nel 2017 il comune di Castel d’Aiano le dedicò una statua dell’artista Alfredo Marchi, intitolata Nei fiori è la mia vita, opera tuttora presente sul territorio del paese.

La Fatina dei Fiori frequentava locali come il Rodrigo, il Diana, il Pappagallo e i Poeti, ma potevi incontrarla anche lungo via Indipendenza, via Rizzoli, via Ugo Bassi o in Galleria Cavour, io me la ricordo spesso nei luoghi in cui mi fermavo a suonare negli anni Novanta, fra il portico del Pavaglione, la torre di Palazzo d’Accursio, il mercato di Piazza Aldrovandi e le osterie del Pratello. Chi la vedeva entrare nei ristoranti si fermava a contemplare quella figura che pareva un quadro impressionista ritagliato in una realtà assai meno bucolica di quella che forse lei viveva in cuor suo.

Eros Palmirani, storico direttore del Diana, ricordò e testimoniò alla stampa il rapporto personale di stima e amicizia che aveva instaurato con lei: “Se per caso un giorno non arrivava, ci preoccupavamo” dichiarò alla stampa dopo la sua morte. Ha lasciato in tutti un segno profondo la discrezione e il sorriso gentile, il fatto che non proponesse una rosellina striminzita avvolta nel cellophane come facevano in tanti allora, ma fiori freschi di giornata, raccolti a mano e confezionati con amore.

Non mancarono leggende, voci e dicerie sul suo conto, si diceva che possedesse un palazzo intero in via D’Azeglio, dove abitava, e che avesse accumulato un patrimonio, vendendo quei fiori; la verità sulla sua vita è ancora oggi un mistero impenetrabile, non siamo in grado di inventariarne le proprietà, anche se una ricerca più approfondita potrebbe chiarire tutti i dubbi, ma a che pro? Sara Maranelli è stata adottata dalla Bologna di quegli anni come un simbolo, un personaggio della strada che si ricorderà nei secoli a venire; alla sua morte, avvenuta il 30 agosto 2010, numerosi articoli e tributi ne celebrarono il ricordo. La sua storia è diventata leggenda, al pari di altri personaggi folkloristici di Bologna come il mitico Settecappotti, un uomo che indossava davvero diversi strati di cappotti per proteggersi dalle “radiazioni nucleari”. Il comune di Castel D’Aiano organizza ancora oggi eventi in sua memoria, con mercatini, mostre dei suoi abiti e composizioni floreali.

La Fatina dei Fiori non era insomma solo una venditrice ambulante ma possiamo dirla a suo modo un’artista di strada, narratrice silenziosa di storie che fiorivano ovunque lei posasse il piè. I bolognesi ne ricordano con nostalgia il sorriso e gli abiti variopinti; ancora oggi, quando arriva la primavera e il dolce olezzo dei fiori si mescola al vento, sembra quasi di rivederla passeggiare nei vicoli, Sara, la Fatina del Bosco, una figura di quelle che non muoiono mai per davvero.

A margine delle notizie che comunemente si tramandano sul suo conto, procedendo per deduzione è possibile ricostruire qualcosa in più, che l’agiografia della nostra Sara Maranelli non riporta in modo esplicito. Il fatto ad esempio che provenisse da una famiglia di contadini di Castel d’Aiano, dove la vita negli anni ’20 e ’30 doveva essere tutt’altro che facile, suggerisce che provenisse da un’educazione e uno stile vita proprio dell’economia rurale, cosa che potrebbe spiegare l’abilità sviluppata nella composizione dei fiori, così come quel suo rapporto intimo con la natura, fondamentale nelle culture tradizionali nel nostro Appennino.

La menzione del piccolo podere familiare tuttavia, indica che non doveva essere di umili origini, se già all’epoca i familiari lavoravano in qualche modo ‘nel loro’ (un privilegio in quelle zone, a quel tempo).

Negli anni ’70, Sara Maranelli decise di trasferirsi stabilmente in città, gli articoli sul suo conto non chiariscono il perché ma possiamo ipotizzare due motivazioni: da un lato il desiderio di fuga dall’isolamento montano conseguente lo spopolamento delle montagne nel dopoguerra, in secondo luogo la relativa prosperità di un mercato in cui doveva aver trovato il modo di realizzare le sue aspirazioni, il fatto che a Bologna avesse incontrato una comunità pronta ad accoglierla degnamente.

Il fatto che abitasse in via D’Azeglio, una via senza dubbio prestigiosa, suggerisce che povera non fosse: vuoi per l’attività di vendita che aveva intrapreso, vuoi per altre attività a noi non note o per risorse ereditate dalla famiglia stessa.
Una delle tesi intorno alle origini di quel suo mestiere ‘antico’ è che avesse cominciato a raccogliere e comporre fiori in seguito a un trauma personale conseguente una delusione amorosa, mossa dall’urgenza interiore di sublimare l’esperienza in qualcosa di creativo e significativo, di affrontare il disagio interiore con le mani, con gli occhi, con tutto il corpo, per alleggerire un’anima tormentata. I fiori, simbolo di rinascita, rappresentavano per lei non solo un mestiere, ma anche un modo per trasformare l’alienazione in poesia.

La dedizione con cui portò avanti questa attività suggerisce un carattere autonomo e resiliente, caratterizzato in parte dal bisogno di un contatto quotidiano con la natura, ma contemporaneamente anche dall’esigenza di relazionarsi con le persone, presso le quali manifestava disponibilità a esporsi, a mettersi in gioco, comunicare.

Quello dell’intero palazzo da lei posseduto in via d’Azeglio potrebbe essere solo un mito da ridimensionare, è plausibile che avesse un appartamento in affitto o una piccola proprietà ma non risultano al momento prove convincenti che possedesse un intero palazzo; più verosimile è che la sua famiglia le avesse lasciato il podere a Castel d’Aiano e che questo sia stato poi elaborato nell’immaginario popolare in un grande palazzo nel centro storico di Bologna.

Un’altra interessante riflessione riguarda la clientela di Sara Maranelli, che come noto frequentava ristoranti come il Diana, il Rodrigo il Pappagallo, conosciuti per essere luogo di ritrovo della media e alta borghesia, l’elite cittadina dei notabili. Questo vuol dire che la sua attività si rivolgeva principalmente a un pubblico avente una certa disponibilità economica. I suoi modi, l’educazione, il garbo nel comportamento, denotavano un’eleganza (pur nella semplcità) che la rendeva apprezzata anche dai ricchi e dai signori, non solo dal mondo contadino e operaio. Il fatto che fosse lei a disegnarsi gli abiti da sola e a dipingerli con le proprie mani lascia intuire un gusto artistico non indifferente, non possiamo escludere un buon livello culturale sia come formazione familiare, sia come approfondimento personale, cosa che spiegherebbe il grande impatto visivo esercitato dalla sua figura su chiunque la incontrasse.

La trasformazione di Sara Maranelli in una sorta di leggenda urbana, risponde anche al bisogno da parte della sua stessa comunità di identificarsi con lei attribuendole valori positivi come la semplicità, la bellezza e l’autenticità, i quali valori non sappiamo se rispondessero solo a una percezione pubblica, o se le appartenessero davvero nel profondo; potrebbe essersi anche più semplicemente adeguata all’immagine che Bologna le andava cucendo man mano addosso. La sua figura quasi fiabesca, associata al mistero del ‘patrimonio occulto’ che alcuni le attribuivano, amplificava la distanza tra l’ordinario e il meraviglioso, ma lasciava anche intravedere l’opportunità che vi fosse uno iato fra il percepito e il reale.

La sua morte ha lasciato un vuoto simbolico, il fatto che venga ricordata ancora oggi con sculture, eventi e racconti testimonia la sua capacità di rappresentare un’immagine ideale di Bologna: elegante, accogliente, umana. Non sappiamo quanto vi fosse di reale in questo simbolo, ma a noi così piace ricordarla. I fiori non dovevano essere per lei solo un mezzo di sostentamento, bensì un linguaggio attraverso il quale comunicava con la ‘sua’ città. Ogni bouquet portava un messaggio, la scelta stessa di comporre dei fiori raccolti liberamente nei boschi e nei prati rimandava, sempre nel percepito pubblico, a un atto di resistenza culturale contro la standardizzazione dei prodotti, la commercializzazione estrema di tutto. Anche questo può aver contribuito a farne una leggenda vivente, quando era ancora in attività.

Nonostante la percezione esteriore di una probabile agiatezza, sappiamo che Sara Maranelli si scontrò comunque negli anni con difficoltà crescenti, come la concorrenza dei venditori ambulanti di rose e successivamente la grande distribuzione floreale rivoluzionata dall’economia predatoria della new economy: continuare a svolgere la sua attività senza mai desistere dalla linea intrapresa, testimonia senza dubbio un profondo attaccamento al ruolo che la comunità doveva averle attribuito.

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