Quella mela avvelenata che uccise la madre di Santa Liberata. “Le vie delle fiabe”
La mela del Diavolo
Che uccise la madre
di Santa Liberata,
F. Berti, Le vie delle Fiabe
Materiali di approfondimento
Come più volte abbiamo ricordato percorrendo Le vie delle fiabe tra Germania, Francia e Italia, questi racconti per molto tempo ritenuti di origine popolare si sono rivelati spesso più ‘colti’ di quanto non avremmo detto a una prima lettura, abbiamo messo in evidenza che la teoria della fiaba come mito decaduto non è più credibile: accade che una stessa fiaba venga ricollegata a episodi leggendari, ovvero legati a una memoria ‘storica’ non documentabile nel luogo in cui viene a diffondersi. Uno stesso motivo, come la principessa perseguitata dal padre o dalla madre, il rifugio nel bosco, lo specchio parlante, la casa dei sette nani, la mela avvelenata, si può ritrovare in diversi repertori e in diversi racconti che talvolta finiscono col radicarsi nell’immaginario di una o più comunità locali ‘agganciandosi’ a leggende precedenti la sua comprovata diffusione sul territorio. La favola di Biancaneve ad esempio, si trovava già nel repertorio di Charles Perrault nel XVIII secolo come novella letteraria, solo dopo venne raccolta dai fratelli Grimm nei Racconti del focolare, per essere infine ricollegata a due possibili figure storiche: Margaretha von Waldeck, figlia d’un langravio protestante, promessa sposa al cattolico principe del Belgio, perseguitata e costretta a rifugiarsi in un villaggio minerario come badante nelle case dei minatori, per sfuggire alla persecuzione religiosa. L’altra Maria von Erthal anch’essa finita a rifugiarsi per motivi politici nella regione delle miniere dove lavoravano bambini per lo più italiani, e la credenza dello ‘Stregone dei Meli’ che si diceva avvelenasse la frutta perché a nessuno venisse voglia di rubarla. Come vedremo nelle note che seguono, questa sovrapposizione è in realtà un’appropriazione successiva, se volessimo ripetere l’operazione con uno qualsiasi dei motivi fiabeschi coagulatisi intorno alla favola letteraria, potremmo radicare nello stesso modo la vicenda in qualsiasi altro luogo nel mondo, trovando tutti i riferimenti del caso e ricostruendo un quadro storico sempre diverso.
Rocca d’Olgisio in Val Tidone
Il luogo in cui desidero portarvi oggi, indossando le stesse scarpe comode con cui andammo a Napoli in cerca della grotta dell’Orco raccontata da Basile nel Pentamerone, si trova nel territorio di Piacenza, Rocca d’Olgisio, dove si possono visitare alcune grotte naturali che recano incisioni rupestri e coppelle su cui molto s’è detto e scritto. Per il momento quel che interessa è l’attribuzione delle grotte al culto di Santa Faustina e Santa Liberata di Como, la cui leggenda ‘aurea’ vuole figlie di un militare che verso la metà del VI secolo d.C. avrebbe dismesso le armi e si sarebbe costruito una rocca non lontano da queste grotte, portandosi dietro un monaco per contribuire all’evangelizzazione della zona. Secondo il racconto leggendario l’uomo sposa una donna del popolo, che gli dà due figlie, Faustina e Liberata. Divenute grandi, le due sorelle rifiutano di sposarsi e si ritirano in preghiera nella grotta oggi a loro intitolata, che alcuni sostengono essere frequentata fin dall’età del bronzo. Non è il caso di approfondire, quel che interessa è rilevare ancora una volta, come avevamo visto durante il nostro viaggio in Germania sulle orme dei fratelli Grimm, il tema del mito che ‘si trasforma’.
Santa Liberata da Como
Per capire l’importanza di questo luogo e delle figure che si ritiene lo abbiano abitato, Santa Liberata e sua sorella Faustina fondarono il Monastero di Sant’Ambrogio a Como e secondo quel che di loro si racconta parteciparono all’evangelizzazione in periodo storico travagliato per i predicatori cristiani, che incontravano resistenze e ostilità nei luoghi dove tentavano di sostituire il culto del dio unico alle divinità precedentemente adorate. Inutile dire che quella nel piacentino non è la sola grotta in cui si pensa che Faustina e Liberata abbiano praticato il romitaggio e la preghiera, ne abbiamo almeno un’altra in Val Camonica, anche in quel caso un luogo caratterizzato da incisioni rupestri e leggende miracolose. Ovviamente in un racconto fondato per definizione sul ‘mistero’ di Cristo, sarebbe vano cercare un fondamento storico nel senso che diamo noi a questo termine, vale a dire una dimostrazione del vero o del falso: non confondiamo fede e ragione. Quel che a noi interessa è ricostruire il racconto tramandato su di lei, suo padre abbiamo detto che era un militare della Val di Taro, quando venne a costruirsi una rocca nei monti piacentini si portò dietro un monaco, così dice la leggenda. Di quel predicatore non si sa molto, se non che nel VI secolo costruì il primo nucleo di una fortificazione che nel corso dei secoli a venire verrà ad arricchirsi di ben sei cinte murarie, torri e giardini, presidiando un picco panoramico di rilevanza strategica sul confine tra Val Tidone e Val Chiarone. Il primo documento storico a comprovarne l’esistenza risale a una donazione del secolo XI ai monaci di San Savino, riportata dalla Curia Vescovile. Prima di allora solo leggende e supposizioni.
La mela avvelenata
Qualcuno troverà il tutto molto interessante, ma che c’entra Biancaneve? Ne parla Maria Cristina Citroni in Leggende e racconti dell’Emilia Romagna, citando C. Artocchini, Il folclore piacentino, un testo del 1979, dove non viene chiarita la fonte documentaria della leggenda, che tuttavia per i temi trattati e il linguaggio si direbbe tratta dalle predicazioni esemplari degli ordini mendicanti. Messer Giovannato viene descritto proprio come un nobile proveniente dalla Val di Taro vissuto realmente nel VI secolo, incontra un pellegrino che lo converte alla religione cristiana e decide di abbandonare il mestiere delle armi congedando il suo esercito, sceglie di tenere il religioso con sé nella corte che si mette a costruire sul monte Aldone, s’una precedente fortificazione romana. A quel punto Giovannato vuole prender moglie e la sua scelta cade s’una donna del luogo, molto giovane e di umili origini, di cui sappiamo solo il nome. Si chiamava Margherita. Dalla loro unione nacquero per l’appunto le due figlie Liberata e Faustina, oggi venerate come sante dalla chiesa cattolica. Nel frattempo altre famiglie nobili convertite al cristianesimo vengono a stabilirsi nelle vicinanze della rocca detta d’Olgisio, divenuta un centro di fervida attività pastorale per opera di quello stesso monaco Marcello, il benedettino che aveva già convertito messer Giovannato. A questo punto, il racconto assume decisamente un tono da predicazione esemplare. Lo riporto così com’è dal libro.
“… Satana era in agguato: troppe anime gli sfuggivano per le continue conversioni. La lotta incominciò. Margherita era ghiotta di frutta: Satana si trasformò allora in un corvo nero e recando col becco una bella mela rossa, la posò sul cassettone ai piedi del letto. quando Margherita entrò nella stanza e vide il frutto , lo mangiò; poco dopo fu presa da un malore e nessuna cura poté salvarla dalla morte. Giovannato fu tremendamente colpito da questa disgrazia, ma anziché ribellarsi alla sorte e bestemmiare, si rassegnò al volere di Dio. le due orfanelle furono affidate alle cure di una affezionata vicina di casa”
Maria Cristina Cetroni, Racconti e leggende dell’Emilia Romagna, Roma, Newton Compton, 1983
Il tema della mela avvelenata in Biancaneve ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro, specialmente per le sue implicazioni prima mitologiche, poi religiose e infine psicoanalitiche; qualcuno lo ha persino ricollegato al simbolo della Apple, per via di quell’Alan Turing pioniere dell’informatica, che si suicidò proprio ingerendo una mela avvelenata al cianuro con riferimento alla favola dei fratelli Grimm. Il fatto che questo motivo della mela avvelenata compaia in una leggenda aurea legata a una santa del VI secolo dopo Cristo, non deve naturalmente indurre nel delirio delle presunte attribuzioni, così come la leggenda del diavolo che viene in forma di corvo sappiamo ricorrere in diversi racconti esemplari, nei processi per stregoneria e inutile ricordarlo, come fido compagno della regina Grimilde nel cartone animato di Walt Disney. Dunque Perrault avrebbe preso ispirazione dalla leggenda di Santa Liberata, ispirando poi anche l’opera dei due fratelli di Hanau? Ancora una volta, la domanda così posta non ha senso. Se apriamo il Motif Index della letteratura popolare, troveremo una quantità di favole simili a quella di Biancaneve, in cui la mela non compare; il tema del frutto avvelenato ritorna in tanti di quei racconti, da non consentire la ricostruzione di un percorso lineare, ha molto più senso pensare che il modo più semplice per avvelenare un congiunto fosse proprio quello di contaminare la polpa di un frutto, invisibile dall’esterno e che il simbolo della mela potesse avere implicazioni religiose per via del significato attribuitogli nelle scritture.
Le fiabe non sono miti decaduti
Pur tuttavia prendendo atto della somiglianza tra le due storie e constatandone la sostanziale rispettiva autonomia, pur riconfermando la questione dei motivi ricorrenti che vengono usati di volta in volta in modo diverso nel qui e ora del rituale narrativo, non possiamo tuttavia che rilevare la compresenza di questi elementi sia nel raccono fiabesco, sia nei racconti esemplari portati dagli ordini mendicanti, nelle leggende auree, nei miti classici, nei testi religiosi. Fiaba, mito e leggenda, spesso convivono all’interno di uno stesso racconto. Il problema è capire come quei frammenti vengano usati dai narratori e perché si trovino configurati proprio in quel modo, quale sia cioè l’intenzione narrativa e l’esortazione che il testo porta con sé, ovvero l’invito all’azione: nella Biancaneve dei Grimm la damnatio memoriae di una strega che pratica la magia nera, la cui vicenda è riportata proprio negli anni in cui si svolgono gli ultimi processi per stregoneria in Europa. Nel caso di Margherita, il diavolo che sotto molte sembianze attenta alla vita degli uomini nell’eterna lotta fra il bene e il male. In entrambe i casi, non siamo di fronte a un mito decaduto, né a un intrattenimento per bambini, ma a un’intensa ‘propaganda fide’ che nel VI secolo come nel XIX si serve per l’appunto della narrazione come strumento di propagazione di valori culturali, per l’educazione religiosa, la lotta all’eresia e il malicidio. Le fiabe sono miti in trasformazione