Una caccia selvaggia, da ‘Il Boia dell’Alpe’
Una caccia selvaggia
Il Boia dell’Alpe n.11
Me lo sentivo. Dietro quei vetri al buio, nelle sagome oscure e spettrali dei palazzi, quelle case gelide nascondevano occhi attenti che seguivano il nostro cammino dal cimitero alla casa del prete. Non c’è voluto molto a radunare il paese, all’inizio avevamo notato solo un piccolo gruppo di sei o sette persone ai margini della pineta, poi altri si sono aggiunti da ogni angolo, da ogni siepe. Han circondato la chiesa, irriconoscibili. Maschere in volto, mani ricoperte da enormi guanti imbottiti, piedi fasciati, scarpe col tacco, zeppe e trampoli, vesti che falsano la corporatura. Impossibile dire chi si nasconda là sotto. C’è la famiglia reale al completo, gli eroi di Dumas, Arlecchino, Pulcinella e Ballanzone. Son persone e son fantasmi, possono uccidere se vogliono; chiamano a gran voce il mio nome. “Fuori l’assassina!” Bussano forte alla porta della canonica sembra vogliano sfondarla, non so quanto a lungo possano tenere i cardini. Pentole e bidoni scandiscono il tempo come un tamburo da guerra, ogni tanto fra i suonatori si leva qualche voce a intonare infamanti e osceni ritornelli. “Fior di cicuta, affacciati al balcone o bella mora, le mani sporche e l’anima dannata”. Ridenti mottetti. D’un tratto sento uno strano odore, m’accorgo piena di sgomento che qualcuno sta liberandosi la pancia nella bocca del camino, un fetore insopportabile. Lanciano sassi agli scuri, picchiano coi bastoni dappertutto, sfasciano sedie, vasi. La perpetua provvede a barricare porte e finestre usando mobili, sacchi di sale grosso per scongelare le strade, serra gli scuri in modo che non si possano forzare dall’esterno. Non servirebbe a niente chiamare la polizia dice, si disperderebbero nell’oscurità della notte e sarebbe impossibile prenderli tutti, sempre che non si rivoltino contro le forze dell’ordine, saran trecento invasati ci vorrebbe un reparto antisommossa; tempo che arrivi dalla pianura hai voglia te. “Vi credono colpevole di omicidio o almeno così dicono, ma come vi spiegavo poc’anzi non potete averlo commesso, la presunta vittima sta meglio di me; chissà che non sia pure lei nel mucchio insieme agli altri, protetta dalla maschera del demonio”. Continua Don Ignazio sfilandosi in fretta la tonaca e riponendola ben piegata sopra lo schienale della sedia. In quel momento m’accorgo d’un particolare interessante, lo vedo portare una maglia di lana sotto la quale due bretelle gli tengono su i pantaloni; quei segni che deve aver visto la dottoressa, di cui tanto si favoleggia in paese, sono la conseguenza d’un abbigliamento povero, i segni delle bretelle.
“Il corteo delle maschere nel piazzale
continua a picchiare coi suoi bastoni,
pisciare nel, camino e scaricare uova
marce contro le possenti mura della
casa torre”
Malelingue penso, possono distruggere un uomo, l’annientano come stanno annientando me adesso. “Forse riesco a farvi uscire di qua” riprende porgendomi un saio turchino, fresco di lavanderia e stirato a mano. Sollevando lo sguardo mi trova stesa in terra, incapace di rispondere. Pallida nel viso, labbra viola, un tremito nella mandibola mi fa battere i denti; inarco la schiena e muovo il bacino senza trovare pace, come in preda alle convulsioni. Le tempie imperlate di sudore, la pupilla rivoltata verso l’interno dell’occhio, devo sembrare un’indemoniata. “Oh, non ora!” lamenta il religioso, pensando che le sue complicate latinerie abbiano sortito su di me un effetto a posteriori. Non valuta nemmeno un momento l’ipotesi del malore improvviso, più verosimile dal suo punto di vista che uno spirito maligno abbia ascoltato le preghiere e stia uscendo finalmente dal mio corpo. Preti, penso fra me. La cosa in un certo senso l’emoziona perché un vero demonio in carne e ossa non gli era mai riuscito di scorporarlo da nessuno. Torna a infilarsi la tonaca, sciarpa viola, incensiere, acqua santa e breviario, mentre il corteo delle maschere nel piazzale continua a picchiare coi suoi bastoni, pisciare nel camino e scaricare uova marce contro le possenti mura della casa torre. Stavolta c’infila dentro tutto il Malleus Maleficarum, lo vedo sbracciarsi tuonando agghiaccianti versetti in aramaico antico, persiano, greco, copto. Le braccia volteggiano, la sciarpa viola sventola come una banderuola sollevandosi a ogni torsione del busto, la voce si fa roca a tratti poi sottile come un flauto, aspra come un trombone, mentre la signorina Strozzapreti s’affanna a tenere le linee rinnovando le fortificazioni là dove sembrano cedere. Scardinato uno scuro, un vetro cade in mille pezzi, lei dà sfoggio di antiche reminiscenze da giovane avanguardista, sempre col coltello fra i denti non smette di spostare i mobili in qua e in là, sistema i puntelli, rinnova le serrate, ripara il legno ceduto. Io non riesco a rispondere, fatico a respirare. Don Ignazio sembra una furia, persevera nella sua battaglia contro immaginari mostri sperando quasi di vederne uno scaturire dal mio ventre. Malelingue penso mentre mi schiuma la bocca, a malapena riesco a fargli cenno d’avvicinarsi. Tuonano là fuori infamanti serenate. Lui con un misto d’incertezza e timore, porge l’orecchio. Coll’ultimo fiato che mi sento in corpo, gli dico: “Vi prego, un’am-bulanza!”. Il corteo delle maschere sta per sfondare la porta. (Continua a leggere).