La satira politica senza volto da Pasquino al Belli.
La satira senza volto
Note intorno alla poesia popolare
al tempo di Pasquino
Tratto da Federico Berti,
Trilussa contro Maciste
La leggenda del sarto pettegolo
La storia delle pasquinate romane è stata scritta dai vincitori, come si dice. Nessuno può dire chi si nascondesse dietro la firma di quelle brevi poesie appese alle statue di Roma, Pasquino era un ‘multiple name’ come lo sono stati a loro modo Ercole, Guy Fawkes e Luther Blisset. Vuol dire che dietro alla sua firma potevi trovare chiunque a Roma tra il XVI e il XIX secolo sapesse leggere, scrivere e comporre versi, abilità che volendo potevano anche non comparire nella stessa persona. La leggenda del sarto pettegolo che avrebbe dato il nome alla statua, interpretata nel cinema da Nino Manfredi, non è dimostrata. A dirla proprio tutta, le prime poesie alla statua monca di Menelao le aveva fatte appendere proprio il cardinale Oliviero Carafa per conto del Papa, lo stesso che aveva fatto restaurare quel reperto dal Bramante in persona.
La festa di San Marco
Vale la pena ricordarlo, ogni 25 Aprile a Roma per la festa di San Marco la statua di Pasquino veniva addobbata come una divinità pagana, sempre diversa, il clero stesso vi appendeva epigrammi in latino da leggere agli studenti del seminario, che magnificavano la figura del pontefice. Questa manifestazione di pura propaganda, presieduta da un funzionario vaticano che selezionava le opere da pubblicare, si è ripetuta per circa trent’anni con poche sospensioni fra il 1508 e il 1539. Per rendere l’idea del clima politico di allora, teniamo presente che sono gli anni in cui Martin Lutero affigge le sue famose tesi al portale della chiesa di Wittenberg, segnando l’inizio della rivoluzione protestante e le guerre di religione. Gli stessi anni di cui parla ‘Q’, il capolavoro di Luther Blisset.
Il Congresso degli Arguti
Se crediamo alla storia scritta da vincitori, allora dobbiamo pensare che il Pasquino delle statue parlanti non rappresentava il popolo di Roma, al contrario quei versi venivano scritti da letterati al servizio di persone influenti, come potevano esserlo le stesse gerarchie del clero o esponenti dell’aristocrazia locale. Tra gli autori di pasquinate lo stesso Pietro Aretino e altri poeti di corte. A partire da questa usanza, dalla seconda metà del ‘500 iniziano a comparire biglietti e cartelli appesi clandestinamente di notte, non dal Papa ma da chissà chi. Più avanti, quando la statua monca di Menelao verrà sorvegliata da guardie armate, inizieranno a parlare altre statue, le più importanti delle quali andranno a formare il cosiddetto Congresso degli arguti. Non sarà il popolo a scrivere quelle note, ma letterati di varia formazione e per di più su commissione.
Altri Pasquini
Sarebbe stato inutile gettare nel fiume il moncherino di Menelao o piantonare le altre statue parlanti che si rispondevano da un capo all’altro del quartiere, qualsiasi altro monumento avrebbe potuto assolvere allo scopo così come oggi qualsiasi parete può ospitare un murale. Inutile reprimere la street art, molto meglio istituzionalizzarla, così avvenne allora, così insegna la storia scritta dai vincitori. Le statue normalmente non incitavano alla rivolta, più che altro voci di corridoio, maldicenze a carico di questo o quel personaggio pubblico, per screditarlo. Gossip, non satira. Vi furono però anche anonimi cantastorie, narratori di comunità e poeti di strada, che una volta scoperti pagarono con la testa, o con l’infamia e la requisizione dei beni, la loro propaganda; era sempre l’autore a pagare, mai il mandante. Nella realtà è molto più verosimile pensare che le statue parlanti fossero ben più di sei e che i bigliettini appesi per farle parlare potessero trasmettere anche idee diverse dal semplice pettegolezzo cortigiano.
Belli e Trilussa. Il Pasquino borghese
Con la fine dello Stato Pontificio la censura continuò a opprimere, incarcerare, impiccare, fucilare, eppure il vecchio Pasquino tacque, o parlò solo molto raramente, o perse una parte della sua verve satirica. Un segnale importante. L’anonimato della satira popolare lascia il posto all’individualismo letterario di figure come Giuseppe Gioachino Belli, che ironia della sorte era proprio un censore e aveva proibito a Roma la rappresentazione del teatro di Shakespeare, tanto per dirne una. E’ proprio lui a distinguere il popolo romano dal romanesco del volgo ignorante, al quale dedica i suoi 2300 sonetti creandone un’immagine consolatoria di bue docile e moderato. Non è un repubblicano il Belli, non un rivoluzionario, ma un colto borghese che finisce col dare un volto al ‘multiple name’ della tradizione incarnandolo nella sua persona come faranno poi Trilussa e Petrolini.
Da Pasquino alla canzone di protesta
Come ho detto in apertura questa è solamente la storia scritta dai vincitori, se andiamo a considerare i dettagli scopriamo nella prima metà del ‘900 una tradizione di pasquinate antifasciste che influenzano la tradizione della poesia popolare e la canzone di protesta, l’arte dei cantastorie non solo a Roma. Nel secolo romantico, chi poteva permetterselo preferiva pagare un giornale, per amplificare le proprie ‘maldicenze’, le statue e più in generale i muri parlavano meno perché il focus dell’informazione si stava spostando sempre più verso la carta stampata. I cantastorie però continuarono a pubblicare, i cori a cantare e la poesia popolare a pungere. L’anonimo sarto del ‘500 che sapeva comporre versi arguti, quello che secondo la leggenda avrebbe dato un nome alla statua di Pasquino, ricorda a noi quella Beatrice di Pian degli Ontani che Niccolò Tommaseo esibirà tre secoli più tardi nei circoli letterari come un fenomeno da baraccone, la poetessa contadina che improvvisava in ottave. Quello stesso popolo che Gioachino Belli descrive come ignorante e rozzo, poco più che una bestia, conosce in realtà a memoria Dante Alighieri, Andrea da Barberino, il Tassoni, le storie del Boccaccio e le poesie del Petrarca. Altro che ignorante. In due secoli come il XVI e il XVII caratterizzati da rivolte sanguinose, guerre contadine e movimenti di massa, è semplicemente irragionevole pensare che in tutta Roma parlassero soltanto sei statue e solo per dare voce al gossip dei potenti. Più naturale ritenere che quel sistema sia stato usato in vari modi, in molti luoghi, da diverse persone, anche se fa più comodo ricordarne il volto patinato dell’umorismo signorile.
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del suo seguito pensò di affiggere a quel torso dei versi, secondo
un costume diffuso nel Rinascimento ma risalente all’età classica.
La consuetudine fu poi da Carafa stesso organizzata in una festa
annuale. Per il giorno di s. Marco (25 aprile) il torso era
variamente camuffato a raffigurare una divinità pagana o un
personaggio del mondo antico; epigrammi latini allusivi a quel
travestimento erano attaccati sotto e intorno alla statua e
rimanevano esposti quel giorno; poi venivano raccolti e stampati in
opuscoli di cui è rimasta una serie dal 1509 al 1525: mere
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Roma: quella del barbuto Marforio, situato nel cortile dei Musei
Capitolini, quella del Facchino di Via Lata, vicino Via del Corso,
quella dell’Abate Luigi in Piazza Vidoni e la statua del Babbuino
che dà il nome all’omonima via. Ultima, ma non per importanza,
l’unica donna di questa curiosa congregazione: Madama Lucrezia, un
marmo che raffigura con ogni probabilità una sacerdotessa di Iside e
che oggi è situato nei pressi di Piazza Venezia. Costituivano il
Congresso degli arguti.
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