La musica afro-americana e lo spartito musicale. Cenni storici.
La musica afro-americana
e lo spartito musicale
Un luogo comune
funzionale al suprematismo
Articolo di Federico Berti
Il retaggio d’un razzismo inconsapevole è spesso dentro di noi. Si manifesta in luoghi comuni cui siamo ormai tacitamente e inconsapevolmente acquiescenti. Ad esempio l’idea che la civiltà musicale afro-americana, in particolare il jazz, sia un fenomeno fondamentalmente orale e come tale vada indagato, è un equivoco generato da una generazione di musicologi europei, bianchi, convinti di poterla indagare solo nelle sue manifestazioni estemporanee, dunque attraverso il supporto sonoro. In realtà la ricerca a partire dagli anni Settanta ha dimostrato che questa musica era sintesi da varie forme pre-esistenti, europee, africane e americane, che potevano contare su una tradizione scritta a partire dalla quale si diffusero successivamente interpretazioni, variazioni e improvvisazioni.
Il jazz non nasce come musica registrata, ma pubblicata a stampa da innumerevoli editori, molti di questi editori a loro volta erano suonatori, non sempre e non solo europei, non sempre e non solo bianchi. Quegli spartiti non ebbero una circolazione imponente come le canzoni, per il semplice motivo che richiedevano maggior competenza da parte degli esecutori e non erano adatti alla famiglia borghese che si riuniva la sera intorno al pianoforte per cantare insieme, quindi potevano raggiungere un bacino di utenza meno ampio ed ebbero una circolazione relativamente ridotta. Questo il motivo per cui il supporto sonoro si rivelò a partire dal Novecento più adatto alla circolazione e trasmissione di quel genere musicale, ma senza un repertorio di composizioni edite a stampa non si sarebbe arrivati all’incisione su disco.
Lo stesso può dirsi del Dixieland, nato nel crogiuolo culturale di New Orleans negli anni delle grandi migrazioni afroamericane dal sud degli Stati Uniti, quando bianchi e neri si ritrovarono a suonare e improvvisare insieme su moduli che partivano da un comune repertorio bandistico. Anche in quel caso, per poter improvvisare si doveva far riferimento a una base conosciuta a tutti. Suonare in banda richiedeva un’alfabetizzazione musicale che prima del 1876 sarebbe stata impossibile date le leggi che proibivano ai neri di studiare, ma negli anni successivi all’abolizione della schiavitù molti di loro iniziarono a praticare l’esercizio su uno strumento musicale per unirsi alle bande dei bianchi e formarne di proprie. Strumenti complessi come la tromba, il trombone, il clarinetto, richiedono una formazione avanzata.
Molto prima del ragtime, la cultura degli Spirituals aveva rappresentato per più di duecento anni la sola forma di espressione musicale consentita agli schiavi. Non per chissà quale slancio di umanità da parte della società schiavista, ma perché la dottrina cristiana si prestava a esercitare su quell’enorme massa di manovra un indottrinamento che la rendesse docile strumento nelle mani della classe dominante. Il cristianesimo doveva insegnar loro a sopportare le sofferenze con spirito di sottomissione, senza reagire, contando sulla sublime ricompensa nel regno dei cieli. Il canto corale veniva a sua volta trasmesso da un maestro alle voci del coro, che poi dopo averlo imparato lo insegnavano anche al di fuori del coro istituzionale, spesso manipolandolo o riscrivendone parti del testo.
Com’è avvenuto per il Vodoo nell’America Latina, così anche gli Spirituals, da non confondere col Gospel che è molto successivo, diedero luogo a forme di appropriazione e rielaborazione in chiave diversa da quella per cui erano stati concepiti. Anche in questo caso non possiamo parlare di oralità primaria ma secondaria, non siamo cioè di fronte a una pratica musicale interamente lasciata all’elaborazione e trasmissione orale da parte della collettività, ma di una tradizione che parte da una forma scritta pre-esistente, il canto liturgico, composto e approvato da istituzioni religiose governate dai bianchi. La prassi esecutiva prevede l’influenza da parte di almeno un maestro alfabetizzato, a sua volta bianco essendo la scrittura preclusa agli schiavi, il quale trasmettendo anche solo verbalmente le melodie, insegnando le parti, dirigendone l’esecuzione, insegna di fatto un linguaggio musicale alle persone che poi quel canto dovranno eseguire.
In pratica il canto degli Spiritual influisce sulla memoria musicale delle comunità afro-americane e lo fa con intento pastorale, evangelico, per indottrinare gli schiavi convertiti. La pratica del canto liturgico offre loro l’opportunità di una formazione musicale che innesta, s’un ceppo culturale africano, il linguaggio della musica europea, uno stile di armonizzazione a partire dal quale poi gli stessi elaboreranno una nuova cifra espressiva. Lo spartito è dunque implicito nel canto degli Spirituals, non viene letto fisicamente ma ne è stato assimilato il linguaggio durante le prove del coro. Parliamo ancora del Settecento, prima della guerra civile. Gli stessi canti di lavoro e le cosiddette ‘grida di campo’, ne saranno influenzate. Quel modo di cantare, unito alle musiche tradizionali delle rispettive culture di provenienza, tramandate in segreto da sempre più esigue minoranze, confluiranno nella nascita dei nuovi generi musicali dopo il 1876.
Bibliografia
Cerchiari, Laura, La musicologia afro-americana e il documento sonoro. Aspetti fondativi e disciplinari, in: ‘Musica/Tecnologia’, 2 (2008), pp. 83-90, Firenze University Press / Fondazione Ezio Franceschin, 2008.
De Stefano, Gildo, Il canto nero : [la matrice della musica afro-americana: liriche, spirituals, work-songs, gospel-songs] / Gildo De StefanoMilano : Gammalibri, 1982
Salvatore, UgoVita e cultura dei negri in America / Ugo Salvatore ; con liriche, spirituals e blues tradotti da Carlo MoriondoCaltanissetta ; Roma : S. Sciascia, 1960