La maschera della vecchia. Romanzo noir

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La maschera
della Vecchia

Il Boia dell’Alpe n.11
Thriller italiano
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Claretta Strozzapreti approfitta d’una calma apparente per venirmi incontro, stanno organizzando l’assalto decisivo; lei a piccoli ma svelti passi, poggiandosi al bastone con insospettabile agilità striscia come una serpe nella sua camera, neanche un minuto più tardi riappare con una borsa piena di bende per le medicazioni, “Coraggio Erminia, provate ad alzarvi se potete”. Aggrappandomi alle braccia esili del prete e alle ossa rugose della perpetua, riesco a tenermi dritta per qualche secondo sullo schienale d’una sedia sfondata; è la prima volta che incontro un predicatore veramente povero, mi sorprendo a pensare fra me. Vedo le mani della donna girarmi intorno rapide con quel rotolo di garza, me l’avvolge tutt’intorno alle gambe, ai fianchi, al petto, le braccia, il volto. Deve usarne più d’uno per coprirmi tutta, lasciando libera una fessura per gli occhi. M’ha prima infilato diverse paia di calzini spessi e caldi, scarponi da montagna almeno tre misure sopra la mia, grossi guanti da muratore. Sulle spalle, intorno alla pancia, arrotola su più strati diverse strisce di lenzuola strappate per ingannare le dimensioni, mi comprime il seno dandomi un’aria mascolina, poi con un po’ di biacca, farina, cenere e una trousse da vanitosa quindicenne, spegne quel bianco innaturale nella curiosa medicazione; intuisco subito l’intenzione della donna e un brivido mi percorre il corpo, che rantola in preda alle convulsioni. Dev’essere una colica ai reni.



“Il corteo delle maschere nel piazzale
continua a picchiare coi suoi bastoni,
pisciare nel camino e scaricare uova
marce contro le possenti mura della
casa torre”


Don Ignazio osserva compiaciuto il risultato, “Siete perfetta! Con quei lamenti e l’abito che indossate vi scambierei per una controfigura del cinema anni ’30. Ora venite con noi, fatevi coraggio ogni cosa andrà per il meglio”. M’aiutano a salire le scale, sotto l’abbaino in soffitta danno le ultime istruzioni mormorando sotto voce: secondo loro dovrei uscire là fuori allo scoperto, confondermi tra la folla e allontanarmi non vista. Sotto le bende m’han vestita con un saio azzurro di quelli che portano i frati al santuario, appena possibile dovrò togliermi le bende e proseguire nel cammino. “Non è lontano l’ospedale, in queste condizioni potreste arrivarvi in un paio d’ore, temo proprio che dovrete andarci a piedi ma non per la strada principale, è escluso che possiate percorrerla in sicurezza: piuttosto deviate su per il convento, poi riscendete dal lato opposto e finirete dritta in bocca al pronto soccorso”. Impossibile penso tra me, poi non appena vedo la porta della canonica squartata da un’accetta capisco di non avere scelta. Il confessore segna l’ultima benedizione prima di tornare in cucina, aspetterà che le maschere abbattano le fortificazioni per riceverle con dignità, del resto cercano me non lui. Claretta schiude l’abbaino quel tanto che basta a infilarci il lungo naso adunco e peloso, scruta negli immediati paraggi poi m’aiuta a salirvi sopra uscendo sul tetto. Vedo la luna sdoppiarsi sfocata negli occhi iniettati di sangue, in precario equilibrio cammino sul piano inclinato dello spiovente, qualche tegola mi scivola sotto ai piedi ma raggiungo il comignolo e fingo d’urlarci dentro i loro stessi versi osceni. Dal piazzale un coro di grasse risate mi fa eco, m’hanno preso per una di loro e pensano stia recitando, continuo a trascinarmi priva di forze fino al punto in cui la neve è abbastanza alta da scivolarvi sopra tornando al pian terreno, si fanno intorno personaggi coi volti coperti, convinti sia dei loro. Un ammasso di peli viene a darmi una tremenda pacca sopra la spalla saltellando con aria complice e divertita fra orrendi suoni gutturali, quasi ingoio l’intestino al contraccolpo; quelle piccole scimmie colla testa di coniglio viste al cimitero, sono bambini travestiti pure loro, altro che folletti. In piedi sulla statua di Padre Pio scorgo un personaggio d’anziana signora dalla voce stridula che scaglia senza tregua grosse cipolle marce attraverso le vetrate infrante, si direbbe il capo della schiera immonda. Mi sarei aspettata un fanatico Arlecchino a guidare la sarabanda invece qui vedo una donna. Sento un rumore sordo, m’accorgo che hanno sfondato la porta e stanno entrando in canonica, vorrei approfittarne ma la folla mi spinge dentro e in men che non si dica mi trovo ancora una volta davanti a Don Ignazio, il quale impugna la sua croce come un vessillo di guerra, immobile al centro della stanza. Son circondata da qualche decina di forsennati, stretti l’un l’altro come sardine in vaso.

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Un silenzio innaturale piomba nell’abitazione. Mi sento svenire dal dolore, ho le lacrime agli occhi e dei terribili singulti al ventre. Non posso lamentarmi, se scoprono chi si nasconde sotto queste bende non so davvero quel che può accadere. La maschera della vecchia si fa largo nel mucchio, viene a fronteggiare il religioso apostrofandolo con voce nasale e un tono arrogante di sfida. “Pare che il signor curato ricoveri un’assassina!” dice, “Se vorrà consegnarla al tribunale del popolo, nessuno si farà male”. Il prete non risponde, mormora tra sé incomprensibili parole in greco antico. Interviene allora la perpetua, impettita e fiera: “Non c’è nessuno qui, controllate voi stessi”. Un vago mormorio serpeggia fra i presenti, compreso il mio vicino che sgomitando sussurra parole incomprensibili, dalla mia bocca esce per tutta risposta un urlo strozzato al quale ammicca sorridendo. Finalmente l’ordine perentorio della vecchia: “Troviamola!”. La folla si disperde fra la canonica e il monolitico bunker della chiesa. Approfitto del disordine per indietreggiare cautamente fino all’uscio, esco dalla casa del prete, m’infilo nella pineta lì accanto e dietro una siepe inizio a svolgere le bende srotolandole con cura, le nascondo sotto al saio azzurro. Calandomi il cappuccio sul volto come un monaco in ritiro attraverso la via secondaria, mi sbarazzo del travestimento gettandolo nel cassone della misericordia e proseguo per la via coperta di neve; ho le labbra viola, sto tremando, dovessi giungere viva all’ospedale sarò forse riconosciuta, arrestata, mi condanneranno per un delitto che non ho commesso. Meglio che morire così, lontano da casa, come una povera mendicante nella morsa del freddo. M’incammino sulla via del santuario.   (Continua a leggere)

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Laureato al Dams di Bologna con una tesi sulla narrazione, Federico Berti è cantantautore, polistrumentista, uomo orchestra, pubblica romanzi, poesie, canzoni. “Il Boia dell’Alpe” è ambientato nel paese di Monghidoro sull’Appennino Bolognese, dove risiede stabilmente dal 2001.

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