Modelle in carrozzina. Gli anziani raccontano. Interviste in casa di riposo.

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MODELLE & ROTELLE – RAI 3

Modelle
in carrozzina

Oltre la patina del ‘buonismo’

La maglia coi buchi per le tette.

“L’han censurata per un capezzolo, voglio dire se non lo fa vedere lei a trentun anni vuoi che lo facciam vedere noi tutte ciondoloni? Senti ora ti racconto questa, ero una magliaia avevo tre clienti vicino al mio laboratorio: una casa di appuntamenti, una residenza per le ragazze di buona famiglia che rimanevano incinte, un negozio dove andavano le donne del mestiere a vestirsi. Disegnavo per loro capi molto particolari, mi chiesero addirittura i buchi per le tette e il culo da farli vedere, ti parlo degli anni ’50 mica ieri. Non so fare uno scarabocchio ma ero brava nel mio mestiere, m’ingegnavo a far le cose più belline possible con lana e filati. La sfilata di modelle in carrozzina l’ho vista anch’io, erano vestite eleganti, giovani e belle; in questa vita porto solo pantaloni, camicie, giacchette, le gonne non mi stanno più, mi son tagliata un poncho e va benissimo, lo infilo da sopra è comodo, pratico, tiene caldo. Non ho voluto mai adattarmi alla moda, ero io a farla: il segreto è diverso per ogni donna, ne ho vestite migliaia anche su misura, me ne capitò una pur bellissima che non sono riuscita a metterle addosso nulla di buono. Un mistero, glie l’ho proprio dovuto dire”.

Missoni veniva dai filati poveri

“Modelle in sedia rotelle, dicono. Oggi con le cose normali non c’è più mercato, inventano le più improbabili, non tutti sono poverelli c’è anche signore che porterebbero l’oro addosso ma la concorrenza è spietata, allora producono vestiti che non si possono portare: le dirò un segreto, quelle cose più strampalate, esagerate diciamo, non sono mai vendute perché è difficile trovare una donna che abbia tempo, soldi, vita e frequentazioni per mettersele. Noi si faceva le fiere, cento o duecento per volta ognuno la sua linea e il suo gusto, c’era pure Missoni con le sue maglie colorate. Quando mi sono sposata ero classica, un poco addobbata che mio marito mi chiamava la Madonna di San Luca; se non mi vedevo con una collana, degli orecchini, mi sentivo come nuda. Ho lavorato bene fino alla fine degli anni ’80, dopo è venuta la prima grande crisi: le fiere chiamavano molti esteri, le mie maglie andavano in tutto il mondo anche negli emirati arabi, avevamo compratori che pagavano con lettere di credito e bisognava stare attenti, perché se tardavi la consegna anche di un solo giorno perdevi tutto. All’inizio del mio lavoro andavano abiti di maglia sottile e raffinata, ricordo un’attrice famosa li portava, invece Missoni veniva da quei filati poveri, ha cominciato con le magliaie di campagna a fare cose da prezzo basso e di buon gusto, poi riuscì a mettere insieme tanti colori, forme e disegni, tuttora è in voga ma allora compravano più volentieri la mia roba perché non andava mai giù di moda e sapevano di potersela mettere a lungo. L’attore Nino Manfredi prima di vestire Missoni veniva da me, tu capisci un conto è l’attrice di grido, ma una donna normale tutte quelle cose faticava a indossarle”.

La classe non è polenta

“Nell’epoca di Mary Quant venne la Twiggy da Londra e Veruska, una principessa africana che pesava forse 40 chili, mi ricordo in Romania un campo di nudisti c’era una modella che si curava con dei fanghi al gomito e ai ginocchi: era nuda e sembrava avesse uno strascico, un regista diceva sempre alle sue ballerine: “Sul palco siete ignude, qualsiasi cosa indossiate se non avete classe non valete niente”. Il famoso Moulin Rouge a Parigi dove le ragazze si esibivano quasi svestite, non erano volgari perché le selezionavano che fossero un po’ raffinate: il locale lo frequentavano anche delle donne, insomma la classe non è polenta. Finita la guerra avevo già dieci anni di mestiere sulle spalle, non c’era né filati né cotoni allora abbiam durato a fare le maglie con la canapa e un tessuto lo rivoltavi più volte, lo tingevi blu, marrone, rosso. Rimodernavo gli abiti di mia mamma, poi li mettevo io. Al tempo del fronte ho lavorato le camicie militari di mio padre, ricamate punto a maglia sembravano dei jacquard; la fame che avevamo! Il pane nero sembrava sabbia, il sego della carne di manzo condiva la minestra. Lavorai  in casa fin dopo la guerra, avevo nascosta la macchina da cucire in cantina per paura che la trovassero i tedeschi, parecchi anni dopo averne una era un valore. I clienti contadini, persone del paese, dalle mutande al maglione; poi ho avuto un colpo di fortuna, un benefattore: lui vendeva le prime macchine, quando ha visto la mia maglieria disse: “Te la porto io nella boutique”. Finimmo a un negozio di Riccione che bastava aprire la valigia di cartone e avevano già fatto l’ordine, lavoravamo di notte perché non era mai abbastanza. Non esisteva uno stilista per le magliaie, ognuna lo era di sé stessa, nessun marchio famoso”.

La modella prosperosa

“Dopo la guerra iniziarono subito i più furbi con le sfilate, ma non di maglieria, sempre abbigliamento. Nel ’45 le modelle erano molto belle, alte e snelle ma normali, meno sofisticate di adesso, mio marito andava a spiare nei separè gli dicevo: “Ma cosa vai a fare che non hanno le tette, solo il dipinto! Allora spopolavano Gina Lollobrigida e Sofia Loren, anche come indossatrici; erano ben formose, dicono che nei periodi di carestia van di moda le figure prosperose, col benessere van quelle magre; un po’ come l’abbronzatura, contadini e muratori se ne vergognavano, non stavan delle ore al sole mentre invece quelli più benestanti si mettevano alla lampada; qui in montagna i più grassi dicevano: “Meglio far ridere, che farsi compatire”. Adesso stiamo ritornando a patire la fame, a Roma frugano nei cassonetti  e così ritornano le modelle curvy. La fissazione delle mannequin magrissime venne negli anni ’60, uno scheletro con la pelle incollata sopra. Dipendeva pure dalla televisione che le ingrossava un poco, allora le sceglievano più sottili; venne la minigonna e trasformò tutto, addittura una fascetta che la chiamavano ‘coprifighette’. Comunque Mary Quant la insignirono del titolo di baronetto perché col tessuto di una gonna ne facevan tre: un lancio nell’economia inglese, guadagnavano tanti soldi, vedevi queste ragazzine sedute che stiravano per non far vedere le mutande, pensavo: “Cosa vuoi stirare? Non ce n’è più!”. Per trent’anni è rimasta quest’idea che la modella dev’essere una croce, una gruccia, una stampella, caschi bene ma sia magra, una mia nipote appena mise su due chili  non la fecero più sfilare”.

Dietro la patina del buonismo

“Ho portato anche abiti lunghi fino ai piedi, sennò direi normalmente quattro dita sopra il ginocchio. Non ero bella, lavoravo d’intelligenza e i fidanzati li portavo via alle altre usando la testa; raccontavo le barzellette. Son cambiate le cose  quando crollò la valuta del dollaro, prima era forte e la lira debole così venivano in Italia a comprare la roba buona per due soldi, poi con la crescita nessuno venne più a comprare. Io vendevo in Cina e guai se non era ricamata in cornely, mi ricordo venivano in cinque da me: uno parlava, uno scriveva, uno sceglieva, uno pagava, solo il capo decideva. Poi finì che arrivarono loro a vendere qui, han copiato le cose mie, le han riportate in Italia per una miseria. Negli anni ’90 andò a finire che le modelle eran vestite di stracci, la moda jeans strappati, scoloriti, bruciati, coi buchi dappertutto, mio padre quando vide sua nipote così le diede cinquantamila lire e disse: vattene a prendere un paio nuovi. Per me è la crisi che porta alle stravaganze: grassi, vecchi, ora col mio gusto non potrei più lavorare. Non sono interessata a quel che vedo, solo Valentino che è sempre fuori dal tempo. Onestamente credo che l’idea delle modelle in carne, oppure disabili in carrozzina, o con la sindrome di Dawn, è una trovata che dietro una patina di buonismo serve solo a coprire un vuoto d’idee, un modo per far parlare di sé e lavorare. Ci son pochi soldi van bene tutte, vecchie, malate, disabili, come una volta quelli che vestivan le donne fuori misura è per quello, mica per vocazione”.

Pensiamo alle donne reali

“I tessuti di adesso sono anche pericolosi perché s’incendiano, tu lo vedi che son morti nella fonderia perché avevano addosso vestiti di acrilico, roba sintetica prende fuoco subito, se erano di lana o cotone si spegneva prima; poi queste robe elasticizzate sono nocive alla salute, causano allergie, malattie e chissà cos’altro. Non posso portare niente di quella biancheria intima, solo che un cachemire costa un sacco di soldi. Per me gli stilisti dovrebbero pensare di più alle donne reali, vanno in giro anche loro con le tette penzoloni come noi. Anche una in carrozzina è sempre una scelta estrema, una provocazione, ma perché dovrebbe vestire in modo diverso da un’altra donna? Proviamo ora a far coincidere di più lo stile con la vita di ogni giorno. Vedi la sfilata elegantissima e gli uomini che vanno a prendere i figli a scuola con la camicia fuori dai pantaloni, nemmeno stirata. Una volta magari avevi la giacca con le toppe, la camicia senza collo, il cappotto rivoltato, ma eri bello perché curato. La classe è prima di tutto dignità e rispetto di sé stessi. Poveri, ma ricchi”.

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