Mistero in biblioteca. Romanzo, fantascienza. L’ospedale fantasma n.9.
Mistero in
biblioteca
L’ospedale fantasma n.9
Romanzo di Federico Berti
FANTASCIENZA ITALIANA
LIBERARE UN LIBRO
Tutto iniziò con le riviste sul tavolo in sala d’aspetto, poi un’infermiera ebbe la brillante idea di liberare i suoi libri dopo averli letti e li donò alla struttura, conservandoli nel piccolo espositore gentilmente offerto da un’agenzia immobiliare. In quel periodo l’ospedale Alderico Barbacani stava attraversando una rinascita culturale, parenti e amici degli ammalati donavano scatole di pubblicazioni salvate nello sgombero delle cantine, con esemplari d’un certo spessore. Si favoleggiava di un’Odissea illustrata da un famoso pittore francese in dodici volumi, ritrovata in mezzo a una collezione di giornali per adulti, un’edizione enciclopedica dell’Orlando Furioso tra le opere di Victor Hugo, Eugene Sue, Emilio Salgari, per non parlare di quelle pubblicazioni che nessuno voleva più in casa e passavano relativamente inosservate nei corridoi del manicomio criminale: i discorsi di Lenin, le memorie di Radetzky, le poesie giovanili di Benito Mussolini.
Col tempo non bastò una sala d’aspetto a contenerle, così traslocarono il materiale nel seminterrato vicino al reparto radiologia. Man mano che chiudevano gli ambulatori si vuotarono altre stanze, in cui vennero a trovar posto nuovi scatoloni pieni di gialli, romanzi rosa, fantascienza. Generosi donatori provvidero alla mobilia, librerie smontabili, tavoli, sedie, cassetti per lo schedario. L’infaticabile Ecclesiarda Scalzacani riordinò l’archivio assegnando a ciascun titolo una collocazione, tuttora convinta siano stati i ragni della sua camera a farlo; del resto non importa a nessuno, dal momento che il luogo è completamente abbandonato a sé stesso. Schiere interminabili di scaffali occupano ancora oggi il dedalo dei corridoi, rudimentali soppalcature costruite da volenterosi bricoleur sopra le porte, ogni rientranza occupata da libri, riviste, enciclopedie. L’umidità ha contribuito a ingiallire le pagine e i topi si sono masticati qualche finale. Sto cercando un testo per il solfeggio da suggerire al cavaliere dell’apocalisse, perciò mi sono avventurato nel sotterraneo pur sapendo che l’algoritmo guarda con sospetto chiunque metta piede qui dentro. Non è stato facile ricostruire la logica dell’archivista, nella sua colpevole ingenuità ha seguito una personale organizzazione pratica in base al colore della copertina e alla dimensione fisica dei volumi, è praticamente impossibile risalire a un titolo, a un autore, a un argomento; ho dovuto ragionare sull’edizione, sull’anno di pubblicazione, per ritrovare quel che stavo cercando.
L’ARCHITETTO
E’ STATO QUI
Mentre scorrevo i titoli in penombra ho sentito un rumore, un movimento d’acqua. Sciocchezze penso tra me, qui non viene mai nessuno. Eppure se non son tratto in illusione da un folletto dispettoso direi che mi trovo davanti a un lavandino, un rasoio, l’odore insopportabile del dopobarba. Protetto dalla parete di libri scruto fra gli spazi vuoti, una porta è socchiusa in fondo alla sala e nello spiraglio scorgo una figura umana in movimento. Non riesco a distinguerne il volto attraverso lo specchio, mi pare sia malamente coperta da un asciugamano intorno alla vita. Si tampona il volto, spazzola i capelli, infila i piedi in eleganti pantofole. Scivolo in terra con movimento rapido, mi sdraio sotto lo scaffale in basso per non essere scoperto; montagne di carta attutiscono il rumore, l’uomo resta qualche secondo fermo davanti a una sedia con lo schienale sfondato. Si riveste, pantalone di panno, camicia stirata, gilet di velluto. Chiunque sia mi vien da dire che non dovrei incontrarlo qui, i detenuti come noi hanno un numero di matricola, una piccola stella tatuata sul lobo dell’orecchio; ognuno conosce gli altri ospiti e questo tizio giuro di non averlo mai visto da nessuna parte. Più che un uomo, un’ombra.
Non porta nemmeno la gavetta in cintura come gli altri. In un angolo della camera noto un comodino intrecciato nel salice e un letto a una sola piazza con la spalliera intarsiata di motivi floreali; nel vano laterale una cucina in massello e vero marmo, scintillanti rubinetti cromati. Questo qua è un raccomandato, altro che galera. Ripenso al manoscritto del povero Lucrezio e ai suoi personaggi surreali, un pittore falsario con la giacca schizzata di vernice, un rapinatore gentiluomo, un’isterica visionaria con manie di persecuzione, un uomo senza nome e un clochard in biblioteca. Nel vivere tra le mura dell’ospedale giudiziario Alderico Barbacani a volte mi sembra che l’allucinazione spinga per uscire dal foglio sostituendosi alla realtà. Non avrei dovuto pubblicarlo quel libro, mi sta dando più guai che soddisfazioni.
L’architetto è stato qui? L’assassino è da ricercarsi in quest’insulsa dimora? Proponendomi in edizione il suo grottesco teatro dell’assurdo ha creato un legame tra noi, è evidente che non mi trovo qui per caso. L’han trovato morto in compagnia dei suoi amati libri, da tempo viveva nascosto là dentro come il fantasma dell’opera che m’è appena comparso davanti. Non so cosa pensare ma fino a quando non avrò chiarito il ruolo del misterioso inquilino che abita al piano interrato sarà meglio evitare di ritornarvi. Si, l’architetto è stato qui. Ne sono sicuro. Non so se da ospite o collaboratore esterno, forse veniva a trovarvi un parente o aveva degli interessi da curare. Certo voleva dirmi qualcosa ma non ne ha avuto il tempo: gli han chiuso la bocca prima che potesse mettermi sull’avviso. Ha lasciato però indizi dappertutto, è solo questione di tempo. (Continua)