Quando il bambino vede per la prima volta una rosa o ne fa esperienza indiretta, l’impressione di quel ricordo lascia una traccia nella sua mente: quella traccia è la memoria naturale della rosa nella mente del bambino. Nuove esperienze producono nuove tracce. Vedendo la rosa appassire, seccarsi, perdere i petali, paragona tra loro quelle visioni per trovarvi dei tratti comuni, organizza i dettagli in categorie imparando a distinguere tra bocciolo, gambo, spine, petali, corolla, ne osserva le diverse tonalità cromatiche, il profumo, gli insetti che le ronzano intorno. Il bambino concepisce una propria idea della rosa e quest’idea diventa una sorta di contenitore nel quale impara a incasellare tutte le informazioni inerenti le rose. Questo lavoro sulla memoria consente di scaricare una parte delle istantanee collegate all’idea di quel fiore, alleviando il lavoro necessario a ‘pensare una rosa’. Ovviamente non basta, col passare degli anni il bambino verrà a conoscenzadei molti significati che le persone attribuiscono all’idea della rosa. La freschezza, la fragilità, la caducità dell’esistenza, l’allegoria della fertilità, della bellezza, il simbolo stesso dell’armonia celeste. Leggerà della rosa nei libri di botanica, nelle poesie di autori morti centinaia di anni prima della sua nascita, canterà le canzoni scritte da autori vissuti chissà quando e chissà dove. Entrerà quindi in contatto con idee diverse dalla propria. Queste idee non saranno più un prodotto esclusivo della propria mente, ma elaborate e trasmesse da altre persone addirittura prima del suo incontro con la rosa. In questo senso l’idea della rosa precede e prescinde l’esperienza.
Platone era convinto che le idee fossero immanenti al mondo, che appartenessero a una realtà sovra-sensibile, un salto metafisico per compiere il quale ricorreva all’intervento di un demiurgo, un ente al di sopra della natura stessa. Questo aspetto chiaramente influenzato dall’enoteismo classico si direbbe incompatibile con la mentalità scientifica, ma non è così. Se le idee fossero un prodotto esclusivo della nostra mente, non sarebbe possibile alcun progresso scientifico e tecnologico. In realtà il fatto stesso di poter comunicare ad altri le nostre idee, confrontandole e integrandole tra loro, è un chiaro segno della possibilità di ricevere un’idea da qualcun altro, ovvero dall’esterno della nostra mente. Se antiscientifica è la dottrina pitagorica della trasmigrazione delle anime, non lo è immaginare una trasmigrazione delle idee attraverso le menti che le concepiscono, le condividono, le confrontano, le rielaborano. In questo senso le possiamo considerare immanenti e solo per questo motivo noi possiamo compiere dei passi avanti nel progresso della conoscenza. Il concetto stesso di formazione, prevede una trasmissione di idee, prima che d’informazioni.
Roberta Rio paragona la nozione di idea come forma della realtà a quella contemporanea di ‘matrice’ intesa come lo schema secondo cui si organizza l’universo, un’impalpabile forma geometrica dietro a tutte le cose visibili e invisibili, dal nucleo atomico, alle cellule, fino alle galassie. La matrice è una forma che condiziona la disposizione di un contenuto. Secondo le neuroscienze l’idea è una forma vuota attraverso la quale noi interpretiamo la realtà, secondo un procedimento che richiama l’idealismo filosofico: un’esperienza diretta o indiretta stimola la nostra mente che va a ricercare tra le matrici di più frequente consultazione quelle che più si adattano allo stimolo, queste vengono attivate per risonanza dando vita a un pensiero, nel quale vengono richiamati i ricordi dotati di carica emotiva che sono più in sintonia con lo stimolo da cui ha avuto origine il pensiero stesso. Nel pensiero si attua dunque la rielaborazione del ricordo richiamato dalle matrici, ovvero dalle idee. Va da sé che sulla base di questo schema procedurale non può esservi alcun pensiero in assenza dello stimolo iniziale, ovvero di un’esperienza sensibile. Le forme matrici, nell’interazione con la materia emotiva ovvero con la memoria naturale, la rielaborano e contemporaneamente si adattano a essa, dunque è indispensabile che vi siano poi nuove esperienze in grado di innescare processi mentali che non siano sempre identici a sé stessi. A quel punto il pensiero può salire alla coscienza o rimanere inconscio, ma in entrambe i casi avrà delle manifestazioni a livello fisico attivando dei circuiti cerebrali, ispirando scelte, azioni, comportamenti, influenzando lo stato psicofisico. Contemporaneamente si fisserà a sua volta nel corpus delle memorie emotive.
Questo paragone tra la nozione di idea e quella di matrice richiama chiaramente l’idealismo platonico, ponendo il contenitore (ovvero la matrice) al di fuori della nostra mente e al di là della percezione. Attraverso l’esperienza noi produciamo continuamente nuove idee confrontandole con quelle degli altri, queste idee ci servono per interpretare la realtà e produrre nuove idee in una continua dialettica tra dimensione individuale e collettiva. Quest’ultima parte del processo di elaborazione è interesse delle scienze demo-antropologiche. Se queste matrici siano immanenti alla realtà, o se non siano piuttosto un costrutto sociale, è tuttora oggetto di vivace dibattito. Quel che a noi interessa è prendere atto di come le idee condizionino l’elaborazione dell’esperienza e siano in parte elaborate dall’individuo, in parte dai gruppi sociali con cui l’individuo stesso si confronta in un tempo e in un luogo precisi. Non parleremo dunque di archetipi universali, essendo ormai ben consapevoli che le idee risentono dell’ambiente sociale, dell’ecosistema e dei riferimenti culturali. Per le ragioni qui esposte, il confronto fra idee diverse è indispensabile ad allargare gli orizzonti del pensiero.
Questo tipo di meditazione sulle idee, sul modo in cui riverberano nella nostra mente, su come si compongono e di quali elementi, come si relazionano alle idee degli altri, è molto utile sia dal punto di vista cognitivo (poiché rende il soggetto pensante più consapevole dei propri pensieri), sia da quello mnemotecnico, poiché aiuta a economizzare il lavoro della mente. L’arte della memoria infatti si avvale spesso di immagini molto forti associate al contenuto da assimilare in modo non sempre coerente con il loro significato, creando un nuovo sostrato che comporta un notevole dispendio di energie, per questo motivo sono così dispendiose. Per ricordare un solo verso della Divina Commedia, il mnemonista di Lurija era costretto a ricordare una lunga sequenza di immagini e movimenti che appesantiva il testo, un sistema che gli consentiva di ottenere dei risultati davvero sorprendenti, ma col tempo finì per portarlo all’esaurimento nervoso. Fu proprio la reiterazione ossessiva di questo procedimento a congestionare la sua memoria naturale. Lavorando in profondità sulle idee per poterle associare in base al loro effettivo significato creando figurazioni intense, insolite, emotive, ma dove ogni elemento sia coerente con tutti gli altri, consente di compiere il lavoro sulla nostra mente senza aggiungere nuovi elementi ma semplicemente armonizzando quelli che già sono parte del contenuto da assimilare. Questo lavoro sulle idee richiede ovviamente del tempo e una lunga preparazione, non si può fare tutto in una volta quando abbiamo qualcosa da studiare ma dev’essere portato avanti con regolarità, nel tempo che abitualmente dedichiamo a noi stessi, ai nostri pensieri, o durante le nostre sessioni di meditazione focalizzata.
Bibliografia
Aristotele, Politica, a cura di Richard Congreve, Londra, Parker and Son, 1855, p. 524.
Borges, Jorge Louis, Funes el memorioso, in:Finzioni, Torino, Einaudi, 1964. L’edizione open source è incompleta, ma include il racconto di Funes.