L’invenzione del romanesco. Dalle accademie al popolo.
L’invenzione
del romanesco
Dalle accademie
al popolo
Tratto da F. Berti,
Trilussa contro Maciste,
Seconda edizione, 2020
Se come abbiamo visto nei capitoli precedenti il romanesco del Trecento risentiva dei dialetti meridionali e veniva messo in ridicolo da uno sdegnato Dante Alighieri come vago e indegno turpiloquio, estraneo alla rosa dei volgari ‘romanzi’, se due secoli più tardi il dialetto parlato entro le mura s’è di fatto evoluto in una variante del toscano, promossa dalle accademie letterarie del Cinquecento, resta da chiarire come si sia passati dal polimorfismo linguistico di allora al rigorismo dialettale promosso dal Belli e dal Chiappini tre secoli più tardi. La risposta è nella letteratura vernacolare dei due secoli intermedi, come vedremo una letteratura aristocratica, erudita, neoclassica. Nazional popolare, non popolare. Folklore, non tradizione. Nemmeno cent’anni dopo il sacco dei Lanzichenecchi, Virgilio Verucci dottore in legge fonda l’Accademia degli Intrigati di Roma da cui riceve il titolo di Accademico Universale, viene ricordato in modo particolare per la sua polemica con la predominante linguistica del toscano e la colta ironia sulla babele dei linguaggi: nella sua commedia Li Diversi Linguaggi si ritrovano tutti i personaggi della commedia dell’arte che parlano nei rispettivi idiomi locali, sforzandosi “di pigliare il parlar comune”, vi troviamo dunque veneziano, bergamasco, siciliano, bolognese, napoletano, perugino, nella forma spuria della parlata caratteristica di apolidi e migranti. Viene in mente il romanesco delle borgate ricercato da Pasolini, in opposizione a quello letterario di Trilussa.
Verso la fine del XVII secolo viene pubblicato il Maggio romanesco di Giovanni Camillo Peresio, raffinato cortigiano che scrisse per Francesco Maria de’Medici in un dialetto definito in seguito ‘ermafrodita’, non essendo buon romanesco né buon toscano. Il suo è un poemetto d’invenzione eroicomica ispirato all’Ariosto e al Tassoni, dove i paladini di Carlo Magno sono sostituiti da bravacci e attaccabrighe. L’eroe di quest’epica tragicomica è un miles gloriosus, un picchiatore prezzolato, facile al coltello ma codardo e inconcludente, verrebbe quasi da dire un protofascista modello. Addirittura in seconda stesura l’autore toscanizza e sdialettizza ancor più la lingua con il fine manifesto di renderla più gradita ai lettori di livello culturale elevato, dei quali teme la critica. E’ già in quest’operetta che troviamo la tendenza caratteristica della classe dominante romana a inventare ogni sorta di feste e sagre, proprio a causa della varia umanità che si ritrova a circolare per l’urbe portandovi costumi diversi, per armonizzare i quali è indispensabile una regia esterna: sono quelle sagre, feste e mascherate romane che nel Belli troveranno la massima espressione del folklore nazional popolare, nato non dall’aggregazione spontanea del popolo ma da un’istituzione pubblica: il maggio romanesco del Peresio riprende l’idea del maggio fiorentino, ma a differenza di quello è un’invenzione colta e signorile ad uso e consumo di un popolo che ha bisogno di ritrovarsi in una comune tradizione, pur non essendo in grado di elaborarsela da solo in quanto, come s’è detto in precedenza, la mobilità è un tratto caratteristico della vita entro le mura, fin dal Cinquecento, come osserva Pietro Trifone1
È stato osservato che «la Roma di questi decenni riproduce Babele». La corte pontificia, nella quale confluiscono letterati e artisti di ogni parte d’Italia, è quella in cui più vivo si pone il problema di uno strumento comunicativo sovraregionale, di un volgare che sia insieme prestigioso e «comune». La «conversazione di molte genti insieme», con maggiore esattezza di intellettuali di provenienza diversa, costituisce una realtà empirica da valorizzare anche secondo i sostenitori della «lingua cortigiana», che proprio nella «universalis Curia» di Roma individuano il loro principale punto di riferimento e luogo d’elezione.
P. Trifone, Roma e il Lazio. Quattrocento e Cinquecento, To, UTET, 1992.
Accademico e cortigiano fu pure quel Giuseppe Berneri che al Peresio s’ispirava, l’autore del Meo Patacca, opera forse più rappresentativa di questa fase intermedia nella formazione del vernacolo letterario in Roma. Tanto per inquadrarlo subito fuori di metafora diremo che il suo autore scriveva al servizio dei Rospigliosi, ovvero la famiglia di papa Clemente IX, egli stesso fu segretario dell’Accademia degli Infecondi che promuoveva per statuto un teatro edificante religioso e ‘popolare’, per quanto nelle sue riunioni imponesse ai soci di parlare il latino, non il volgare. Anche lui è stato un erudito al servizio dell’aristocrazia e del clero nella cui operetta, ripubblicata poi nell’Ottocento con le celebri illustrazioni di Bartolomeo Pinelli, considerata ancora oggi un fondamento del romanesco letterario, si inscrive perfettamente nel quadro della Controriforma cattolica, reinventando il concetto stesso di cultura popolare secondo le finalità proprie della propaganda religiosa e dell’attività pastorale: commedie per musica, intermezzi, opere sceniche morali, che del popolo avevano soltanto una vaga e nebulosa idea come destinatario d’una produzione letteraria totalmente allineata al potere politico e religioso, un’intenzione evidente ad esempio nel modo in cui l’autore indugia nella descrizione dei palazzi signorili romani, degli addobbi per le feste e più in generale i simboli del potere locale. Lo scenario è quello dei festeggiamenti per la vittoria contro i Turchi a Vienna, sul quale s’innesta la vicenda eroicomica del bullo Meo Patacca, stereotipo dello sgherro malavitoso. Come osserva Claudio Mutini nel Dizionario Biografico degli Italiani, la lingua del poema non è per l’appunto il dialetto romanesco, mai del resto assurto a dignità dialettale, ma un ‘idioma imbarbarito’ destinato alla funzione edificante del poema. Ciò nonostante, troviamo di particolare interesse che nella prefazione alla riedizione del 1821, l’accademico cattolico Giuseppe Martinetti osservi come il linguaggio parlato nel poemetto del Berneri somigli a quello della plebe romana ed ebraica del suo tempo: un’opera non dialettale, che finisce però a sua volta coll’influenzare un dialetto in formazione, ovvero l’invenzione di una koiné dialettale ad uso e consumo degli intellettuali borghesi, di cui il popolo si riappropria nella grandiosa parabola del Risorgimento. Quel dialetto che verrà poi formalizzato per l’appunto da Belli, ingentilito da Trilussa, ricusato da Pasolini.
Quando insomma nell’Ottocento riformatori come Filippo Tacconi, Gigi Zanazzo, Checco Durante, Cesare Pascarella, a loro modo immersi nel clima politico e culturale dell’idealismo romantico, riprenderanno il vernacolo romanesco portandolo alla sua massima popolarità, in un’epoca segnata da guerre d’indipendenza e rivolgimenti sociali, lotte politiche e rivendicazioni sindacali, questi autori divisi tra proletariato e borghesia si troveranno alle spalle un modello letterario radicato nell’erudizione accademica dei due secoli precedenti, maturo abbastanza da porsi come orizzonte normativo d’un romanesco idealizzato al quale conformarsi. Quando nel 1861 il neonato Regno d’Italia censisce 170.000 romani, la quasi totalità dei quali parlante nel dialetto locale, si riferisce a un popolo consapevole d’essere tornato protagonista della storia nazionale, un popolo che nello spirito storicista dell’ideologia romantica va cercando nel passato una legittimazione del presente. Incontro come vedremo solo momentaneo, poiché a partire dal primo dizionario del romanesco redatto da Filippo Chiappini, quel dialetto si troverà nuovamente imbrigliato nella morsa del rigorismo e non sarà più in grado di seguire quell’esplosione demografica della Roma sottoproletaria, quella che porterà le nuove borgate ad attirare nuova forza lavoro, nuovi investimenti, dando nuovo stimolo all’espansione urbanistica: le molte voci dell’urbe di cui parla Trifone continueranno a tessere la Babele di linguaggi da cui era emerso quel vago arcipelago letterario del Seicento e del Settecento, ma il vernacolo non sarà più in grado di adeguarvisi e finirà inevitabilmente per scollarsi dal popolo. La credibilità del nuovo idioma finisce quindi con la sua istituzionalizzazione ad opera del Belli ed entra in decadenza nel momento del suo massimo fulgore, con Trilussa. Pasolini verrà a decretarne la morte.
1P. Trifone, Roma e il Lazio. Quattrocento e Cinquecento, To, UTET, 1992.