Ne uccide più la penna. L’ospedale fantasma. Cap.2
Ne uccide più la penna
L’ospedale fantasma, Cap.2
Romanzo di Federico Berti
L’ignorante non ha dubbi. Beato lui, penso tra me osservando l’androide fermo sulla porta della mia stanza in attesa che gli vada incontro per il prelievo del sangue. Un normale controllo, non temo di dovermi preoccupare ma è programmato per seguirmi in capo al mondo se necessario. Non rinuncerà al suo campione. Non si pone domande il calcolatore, segue leggi formulate da un romanziere, mica da uno scienziato. Lui fa quel che è scritto. M’attardo ancora un poco alla finestra scrutando l’orizzonte delle montagne in fiore, dietro le cui vette arrotondate il sole annega lentamente. L’edificio sembra cadere in pezzi ma il corpo della macchina è lucente, pulito come un gatto. “Posso esserle… Utile?”. Domanda freddo, impersonale. L’ignoranza lo protegge
Un tempo a quest’ora del pomeriggio nei corridoi dell’ospedale Alderico Barbacani si aggiravano premurose le assistenti di servizio recando con sé il carrello con la cena, seguito di lì a poco dall’infermiera per le medicine. Avevano la cucina nel seminterrato, si mangiava discretamente; poi dovettero appaltare la mensa e qualche volta il brodo insipido non arrivava caldo come l’avresti voluto, ma il sorriso con cui lo servivano ti ripagava dall’obbligata astinenza. Con la nuova gestione tutto è cambiato, ora sono gli ammalati stessi a doversi preparare la cena in accordo col menu compilato dai volontari della croce rossa, sorvegliati da un uomo di latta che preleva sempre un campione del cibo per analizzarne la composizione prima della consegna; se la preparazione è fuori norma il detenuto ai fornelli deve rifarla da capo, tirandosi dietro le bestemmie dei compagni. Il futuro è qui penso tra me, mentre sciupavamo il nostro tempo a filosofare sul corso della storia e sulle ombre della cronaca, lui ci ha aggredito alle spalle.
E’ tempo di spiegarvi come son finito qui, lo avevo promesso. Ultimo discendente da un ramo secondario d’un casato che vanta illustri accademici in prestigiose università europee, i miei antenati facevano appena in tempo a figliare che un’implacabile vicenda giudiziaria li portava a consumare le loro esistenze in galera o sul patibolo a causa di pubblicazioni giudicate pericolose per la salute pubblica. Mi son fatto ricostruire l’albero genealogico da un ebreo del mio quartiere, è una famiglia avventurosa quella da cui provengo; destino tracciato prima ancora che nascessi, al contrario dei miei predecessori però le congiure di popolo non m’interessano; negli anni ’80 del secolo XX non avevi scelta, se volevi campare nell’editoria non era coi libelli della propaganda che potevi sbarcare il lunario; la politica era venuta noia non solo a me, nello stesso anno in cui a Berlino la gente saltava sui muri col piccone in mano, io m’affermavo con un certo orgoglio nell’editoria spazzatura. Ho pubblicato di tutto, dalle figurine dei calciatori alle riviste scandalistiche, dai finti rotocalchi ai fumetti per ragazzi, dalle cartoline turistiche alle carte da gioco.
Un editore di successo, nel mio settore s’intende; non chiedevo altro alla vita che un bel vestito e una donna di poche parole al mio fianco. Del resto gli scrittori pensano d’esser nati con la penna di Santa Lucia in mano, il consiglio paterno dell’editore viene accolto con durezza. Non ha senso investire in pubblicità per un giovanotto presuntuoso che appena può se ne va per la sua strada e ti lascia in mutande proprio quando stavi per iniziare a guadagnarci qualcosa, per questo in genere scelgo gli autori in misura inversamente proporzionale al loro ingegno, mi basta siano veloci sulla tastiera e non abbiano altra ambizione che riempire dei format predisposti. Insomma, la mia vita correva tranquilla finché uno di loro non ci ha lasciato la pelle: l’han trovato morto nel sotterraneo d’una biblioteca. Il guaio è che aveva descritto in un suo romanzo la scena del delitto, tale e quale a come poi gli s’è rivoltata contro.
Ho avuto la sventura di pubblicare quel libro. Non saprei dire come sia accaduto, di solito quando mi consegnano un manoscritto fingo interesse ma poi lo lascio a marcire in archivio, non ho tempo e non m’interessa prendere a servizio qualcuno che legga per me. Il mondo è pieno di libri, uno in più uno in meno fa poca differenza; stavolta però mi son lasciato prendere la mano. Quel testo m’aveva punto nell’orgoglio, per questo ho voluto prendermi la responsabilità di metterlo in circolazione; ora sono indagato per omicidio e data la crudeltà delle circostanze in cui il fatto s’è verificato, mi trovo in custodia cautelare fra i muri cadenti della colonia penale nel borgo di Lusiano con un solo pensiero che m’ossessiona, sciogliere l’equivoco dimostrando la mia innocenza. (Continua)
Tratto da F. Berti, L’ospedale fantasma
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