Il castello dei sogni proibiti. Fantascienza italiana
Il castello dei
sogni proibiti
L’ospedale fantasma n.6
Romanzo di Federico Berti
FANTASCIENZA ITALIANA
I SOGNI SON DESIDERI
Nel vagare tra le cento stanze del palazzo mi sento un calabrone ubriaco che sbatte contro le finestre in cerca d’una via d’uscita, a volte ho l’impressione che l’edificio voglia prendersi gioco di me. Non sembra mai lo stesso del giorno prima, perdo l’orientamento. Sono i detenuti a intervenire sugli ambienti, vengono organizzati senza una logica lineare: puoi uscire da una camera fetida per ritrovarti come d’incanto in una suite di lusso con tappeti orientali e vasi cinesi; nel corridoio centrale è apparso stamattina il bancone di un’enoteca in stile francese dell’800, non si sa chi l’abbia montata, né con quali strumenti. La casa pare voglia cadere in pezzi, come se lo spazio prendesse la forma di chi l’abita adattandosi all’umore, ai desideri, alle nevrosi. Un castello dei sogni. Proibiti.
L’apparente decadenza non risponde che al disordine mentale in gran parte dei residenti. Sono sceso nel seminterrato all’arrivo delle forniture, un militare m’è venuto subito incontro per allontanarmi: direttive sindacali dice, i facchini han paura di noi. Non volendo sprecare il mio tempo in discussioni vane, risalgo la scala che porta nel piccolo giardino esterno dove una voce femminile m’accoglie con accomodante familiarità. Profonda, persino sensuale. Sulle prime distinguo appena un cappello di paglia dietro lo schienale della sedia a sdraio e l’esile braccio che saluta di spalle, devo farmi avanti girando intorno alle ortensie per poterne distinguere la figura. “Finalmente vi conosco dal vero!” mormora la donna con una palpebra abbassata, riparandosi lo sguardo dal sole alto nel cielo. Ascolto incredulo.
La casa pare voglia cadere in pezzi, come se lo spazio prendesse la forma di chi l’abita adattandosi all’umore, ai desideri, alle nevrosi. Un castello dei sogni. Proibiti. L’apparente decadenza non risponde che al disordine mentale in gran parte dei residenti. Sono sceso nel seminterrato all’arrivo delle forniture, un militare m’è venuto subito incontro per allontanarmi: direttive sindacali dice, i facchini han paura di noi. Non volendo sprecare il mio tempo in discussioni vane, risalgo la scala che porta nel piccolo giardino esterno dove una voce femminile m’accoglie con accomodante familiarità. Profonda, persino sensuale. Sulle prime distinguo appena un cappello di paglia dietro lo schienale della sedia a sdraio e l’esile braccio che saluta di spalle, devo farmi avanti girando intorno alle ortensie per poterne distinguere la figura. “Finalmente vi conosco dal vero!” mormora la donna con una palpebra abbassata, riparandosi lo sguardo dal sole alto nel cielo. Ascolto incredulo.
L’ASSISTENTE SOCIALE
Le piace raccontarsi. Ha iniziato a sedici anni come volontaria nelle missioni di pace, portava bende, cerotti e medicine ai feriti che tornavano dal fronte. Venne espulsa quando i servizi segreti scoprirono che negli ospedali da campo si curavano anche i tagliagole al servizio delle grandi compagnie petrolifere. Riuscì a salvarsi perché minorenne. Ripiegò in Africa dove partecipò per qualche tempo alle spedizioni nel Sahara, proiettava ai figli del deserto commedie, cartoni animati e documentari, nel frattempo quelli morivano di sete e dissenteria. Partì allora per il Brasile, dove iniziò ad occuparsi delle adozioni a distanza tra i baraccati; metà dei bambini erano orfani di spregiudicati criminali, affiliati ai cartelli della droga spacciavano sostanze illegali nei luoghi di destinazione, usando la parentela acquisita come copertura. All’età di ventiquattro anni, la povera Cleonice Ficalessa restò incinta d’un tredicenne che poche ore dopo l’amplesso morì in una rissa tra bande, lei disperata ritornò in Italia, dove trovò un posto come assistente sociale nella rete delle R.E.M.S.
L’ILLUSIONE DELLA LIBERTA’
“Sedete pure” esorta mostrandomi una sdraio vuota accanto alla sua. Non giurerei sia tutto vero quel che dice, ma corrisponde almeno all’immagine che vorrebbe darmi di sé. Biondi ricci le esplodono in testa e due giganteschi occhi brillano di luce propria s’un corpo sottile, slanciato, pallido come la morte allo specchio; dovessi riassumerla in sei parole, direi che è un reggiseno floscio sul duro petto d’un travestito. “Vi dirò in confidenza” sussurra guardandosi intorno con sospetto, m’illustra il suo incarico. Nessuno deve scappare, le nuove frontiere della detenzione s’inscrivono nella tradizione del pane e del circo: psicologia, antropologia culturale, sociologia, comunicazione, concorrono al condizionamento dei desideri attraverso una consapevole manipolazione delle illusioni. “Quando arrivano” spiega, “Tutti vorrebbero andarsene. Noi attraverso un evoluto sistema di sorveglianza e grazie agli esami clinici trasmessi dalle macchine, possiamo studiare le personalità degli assistiti. Passiamo i dati al reparto scenotecnica, il quale progetta un simulacro del sogno nel mondo reale.
In genere bastano poche settimane e non solo dimenticate il motivo per cui siete qui, ma vi passa anche la voglia di andarvene”. Mentre parla gesticolando con leggerezza, come se stesse descrivendo il suo ultimo cardigan ricamato all’uncinetto, mi guardo intorno. “Creata l’illusione, personale qualificato provvede a disseminare nell’edificio le singole componenti della messinscena in modo che sia il detenuto a trovarle per caso, raccoglierle, assemblarle di propria iniziativa. Deve convincersi che il progetto è suo. Noi vi rendiamo la vita in galera più desiderabile della libertà”. Un aquilone vola sulle nostre teste, mentre mi chiedo per quale motivo l’assistente sociale condivida con me informazioni tanto riservate noto in lontananza la sagoma di Maria, l’angelo della robotica. Immobile accanto a un’edicola della Madonna guarda verso di noi, credo stia registrando il colloquio; è addestrata alla raccolta informazioni possiede microfoni per il controllo a distanza. Meglio non sbilanciarsi. Non mi fido di nessuno, vorrei solo capire se l’assistente sociale stia provando a conquistarsi la mia benevolenza, o se abbia progetti diversi per me. Distolgo lo sguardo dal suo corpo asfittico, mi stendo anch’io sulla sdraio con la nuca premuta contro lo schienale. Lei mi porge della crema protettiva. “Perché premiarli così?” domando. “E’ un ospedale psichiatrico giudiziario, non una ludoteca”.
La donna voltandosi verso di me abbassa gli occhiali sulla punta del naso e risponde, come se stesse spiegando qualcosa di ovvio a un ingenuo: “Non è mica un premio, per l’amor del cielo! Le porte aperte e l’apparente libertà di movimento sono la nostra più riuscita innovazione: non essendovi il personale normalmente in servizio negli ospedali, ma solo qualche androide programmato per eseguire funzioni di base, il risparmio è del novanta per cento. Nessun prigioniero si sente costretto a rimanere qui, semplicemente desidera farlo perché le sue scelte vengono incanalate in un contesto di spettacolo permanente. I risultati delle ricerche li vendiamo poi ad agenzie di comunicazione, l’investimento è ampiamente ripagato”. Pane e circo, insomma. Niente di nuovo. A suo modo geniale, ma perché dirlo proprio a me? Fingo di non dare importanza alle sue parole. (Continua)