L’imperatrice dei ragni. Romanzo di fantascenza. Libro, Ebook.
L’imperatrice
dei ragni
L’ospedale fantasma n.5
Romanzo di Federico Berti
FANTASCIENZA ITALIANA
IL PRESIDIO OSPEDALIERO
Dall’agonia di questa gabbia si vedono le strade prendere vita, è giorno di mercato a Lusiano, i banchi montano le tende. Brave persone si alzano presto al mattino per rincorrere la merce migliore, da qui posso godermi il passo diverso di ciascuno, le movenze, quel che comprano, quanto spendono, le facce che fanno. Qualcuno ogni tanto solleva lo sguardo e saluta con un cenno. Siamo considerati anche noi parte del paese, a volte ho la sensazione che nei momenti di sconforto si consolino pensando alle nostre vite afflitte. Come dire c’è sempre chi sta peggio. L’ospedale Alderico Barbacani è stato un presidio importante, forse l’ultima roccaforte della sanità pubblica italiana. Ha resistito là dove le altre strutture cadevano a colpi di frusta, la sua forza era nel numero e nell’organizzazione: sindaci, assessori d’ogni partito s’erano schierati compatti insieme ai cittadini mobilitando tutte le forze in campo, politica e istituzioni costituirono un sol fronte insieme a medici, avvocati, architetti, ingegneri. Ogni cittadino del comprensorio piantò una rosa in quel giardino, fu uno straordinario esempio di civismo repubblicano. Poi la stanchezza prese il sopravvento, dell’entusiasmo iniziale non rimasero che ritualità scomposte, prepotente protagonismo, incosciente superficialità; per spiegare meglio quanto avvenne allora vorrei soffermarmi sull’incredibile storia dell’imperatrice, così la chiamano i detenuti del manicomio criminale in cui mi trovo ricoverato.
LA REGINA DI PICCHE
E’ una donnina piccola e grassa, quando cammina ruota distrattamente la pancia su cui riposano indolenti le braccia a ogni passo, lunghi capelli d’argento raccolti in una grossa cipolla sopra il capo, due spessi occhiali di tartaruga e il pesante rossetto fan risaltare ancor più la divergenza dell’occhio sinistro, quando la guardi sembra di parlare con due persone diverse. Porta sempre lo stesso vestito lungo a fiori col grembiule in vita, alla maniera dei contadini d’una volta. Non so chi l’abbia convinta che per vivere in montagna nell’era dei droni sia obbligatorio vestirsi come i servi della gleba. Vive qui dentro anche lei in una mansarda lurida, buia come la notte dei tempi, le han dato l’ergastolo per omicidio colposo e son convinto che potrebbe rappresentare una risorsa per noi, se solo si rassegnasse a lasciarsi consigliare. Quando arrivò in paese era una come tante altre venute dalla città portandosi dietro i veleni della civiltà futura, non avevo mai visto nessuno qui da noi litigare per un parcheggio o per un convivio in giardino all’americana.
Aveva messo in piedi una modesta attività coltivando erbe medicinali e rivendendole alle farmacie in pianura, ciò non le garantiva una vita nel lusso ma qualche cliente iniziò a farselo anche in zona; all’inizio voleva solo ambientarsi, da noi il modo più semplice per conoscere la brava gente è dedicare una parte del proprio tempo al bene comune; si accorse presto che il disinteressato contributo le portava buone prospettive anche sul piano professionale, sempre più persone si rivolgevano a lei per acquistare i prodotti del suo giardino. Più tempo dedicava al volontariato, più cresceva la sua attività; le vennero affidati incarichi delicati, col tempo dovette appaltare la cura dei fiori a un giardiniere professionista, perché non aveva più tempo da dedicare alla coltivazione diretta. Come nei romanzi del terrore la creatura finì col sottrarsi all’autorità dei suoi stessi creatori, organizzava così bene il suo personale che stava diventando più efficiente d’una multinazionale.
Dilagava in ogni settore, finché in paese non rimase attività che in qualche modo non fosse riconducibile al suo ufficio. La manodopera servile da lei amministrata finì coll’esautorare ogni competenza professionale, non si trovava più lavoro retribuito in tutta la montagna dato che ovunque per suo merito si lavorava gratis. Quando la mettevi in discussione era bravissima a farsi vittima. Sempre e comunque, con chiunque. Impossibile non crederle, per ridurla in quello stato i suoi nemici dovevano essere persone di spaventosa crudeltà, individui senza scrupoli. Il ricavato delle attività finiva regolarmente in beneficenza alle corporazioni, alle fondazioni, agli enti religiosi e alle confraternite, ad altre associazioni di volontariato che si passavano il denaro di mano in mano per farle confluire dopo un lungo e tortuoso percorso nell’edilizia del terzo mondo, nell’industria farmaceutica, nello sfruttamento del lavoro salariato che in questo modo perdeva sempre più importanza. Beneficenza ai ricchi, sulle spalle delle persone d’animo gentile convinte di contribuire al progresso della civiltà. In questa folle prospettiva l’imperatrice si trovò a mettere le mani in terreni insidiosi, la volta in cui ci scappò il morto i suoi molti adulatori alzarono le mani abbandonando la nave, lasciarono che affogasse urlando nel proprio stesso letame. Una donna così puoi solo compatirla.
LA MANODOPERA SERVILE
Quel limite sottile che passa tra servizio e monopolio, nel libro paga dell’imperatrice trovavi il povero Trifone Cavicchio operatore ecologico e ceramista a tempo perso, con lunghe mani nodose e affusolate; se dovevi cavarti un dente andavi da lui e ti legava lo spago alla maniglia della porta, poi con le posate delle bambole modellava un po’ di quella pasta che usano i dentisti ed era capace di rinnovarti la bocca, bastava devolvere un’offerta a non so quale istituto. Poi dovevi tornarci una volta ogni tre mesi perché le otturazioni saltavano col primo cucchiaio di minestra. Al posto dell’architetto veniva quel tale Stilicone Carogna figlio del geometra, un ragazzino coi capelli a spazzola e l’orecchino viola al naso che andava in giro colle svastiche disegnate dietro la maglietta, progettava la casa montando insieme i mattoncini componibili dei giochi per bambini con dentro cubi colorati per simulare l’arredamento; bastava consegnare al capomastro un selfie delle sue costruzioni e lui tirava su i muri in scala uno a pressappoco.
C’era poi Aristocrate Filodemo, maestro in pensione che tutti gli anni teneva sempre la stessa conferenza sulla gelosia di Anita Garibaldi nelle cronache del Risorgimento, ogni volta dimenticava d’averla già raccontata cento volte in precedenza quella storia e così la rimetteva in calendario; per non offenderlo ritornavano ad ascoltarla i vicini di borgata, facevan sempre le stesse domande e non si lamentavano di ricevere le stesse risposte. Gli parlavan poi dietro, non l’avrebbero mai detto in faccia. Ricordo quel disgraziato petroliere in congedo che organizzava le visite guidate al pozzo del Grillo, al sasso della Passerotta, al laghetto delle Trote, ripetendo a memoria quella pagina scarsa dalle riviste di folklore che si faceva leggere dalla moglie mentre spazzava le foglie in giardino. Fu questa mentalità a scardinare l’ordine sociale, tutti quelli che possedevano titoli e competenze si ritrovarono costretti ad emigrare altrove, in paese non restarono che loro. Volontari senza più volontà, schiavi inconsapevoli d’un mondo che non dava più valore né al lavoro, né alla formazione che questo richiedeva. Lei per prima, l’imperatrice. Col tempo i nodi vennero al pettine, la gente continuava ad andarsene, i bambini non nascevano, il paese invecchiava. Chiusero le scuole, non servivano più. Chiusero le fabbriche, non lavoravano abbastanza. Chiuse anche l’ospedale. Quando la povera Ecclesiarda Scalzacani si lasciò scappare un anziano smemorato che custodiva senza averne titolo, quel poveretto finì a vagare senza meta in piazza, venne travolto da una bicicletta. Cadde malamente, morì sul posto. Il resto è cronaca.
La regina dei buoni ora passa il tempo a compilare i turni dei ragni che nidificano dentro la sua angusta cella, convinta che le obbediscano. Ha costruito per loro un reticolato col fil di ferro e delle piattaforme su cui lascia molliche di pane secco, croste di formaggio, zucchero per le formiche, le zanzare, le mosche. Volenterosi, i suoi diletti costruiscono le più inverosimili architetture nidificando nel sottotetto dell’ospedale; la sua mansarda è arredata con un letto alla svedese cui mancano tre doghe, una scrivania e l’immenso archivio dei registri in cui annota ogni movimento degli insetti, l’orario esatto, il rimborso in avanzi alimentari. Mentre osservo da una finestra quel po’ di folla muoversi tra i banchi del mercato, col sole ormai alto nel cielo che mi si conficca nell’iride, penso a quale straordinaria risorsa potrei avere tra le mani: nei suoi registri l’imperatrice ha preso nota di chi era dove in qualsiasi giorno, mese o anno dal momento in cui ha preso la direzione logistica della sua manodopera servile, quand’era abbastanza lucida ancora da rendersi conto di quel che le accadeva intorno. Consultando quei dati si possono ricostruire molte vicende relative a questi luoghi, perché nomi e cognomi dei generosi volontari, donatori, tesserati, sono corretti. Così la magistratura ha stabilito durante il processo, almeno in quello era stata ineccepibile.
Avrò bisogno di prenderne visione, se voglio dimostrare la mia innocenza: come una volta si consultavano i registri parrocchiali, le visite pastorali e gli archivi degli arcipreti per ricostruire la vita in un territorio lontano dai grandi centri abitati, così oggi le associazioni di volontariato amministrano in quegli stessi luoghi capitali enormi, quasi più delle aziende produttive. Ognuna porta un bilancio apparentemente misero, ma tutti questi piccoli corsi d’acqua vanno a confluire nel grande bacino idrografico della macro-economia. Devo studiare quelle carte. Non sarà facile, ne è gelosa come dei libri sibillini. Le conserva con cura maniacale spolverandole ogni settimana, le fodera in pelle di topo essiccata al sole affinché non si consumino, l’archivio intero è blindato. Tutta la sua vita si trova lì dentro. Scoprirò dove nasconde la chiave. (Continua)