“Credo nella torta e nel tortello: l’uno è la madre, e l’altro è il figliuolo; il vero paternostro è il fegatello”. (L. Pulci, Morgante)
Libro di cucina.
Se ne scrivono tanti al giorno d’oggi, ne sono piene le riviste e le trasmissioni televisive che ci mostrano ricette spesso molto fantasiose, accomunate però dall’idea che il cuoco non debba mai svelare fino in fondo i segreti del mestiere: alle sue creazioni impone un taglio personale per affermare il proprio stile (la cui formula magica egli custodisce gelosamente), in modo tale che la ricetta finisce per essere un qualcosa di ben codificato da realizzare proprio com’è scritta, senza cambiare una virgola come fosse un testo ‘sacro’. Gli artisti poi crescono e maturano, esercitano la professione per diversi anni finché vanno in pensione, appendono il mestolo e si fanno servire dai nuovi professionisti o da qualche persona di servizio; solo allora, non dovendo più competere nell’arena coi gladiatori della ristorazione, possono ‘sbottonarsi’ rivelando anche ogni piccolo segreto dell’arte che li ha appassionati per una vita intera, ne avvertono anzi l’esigenza perché man mano che avanza l’età ci si sente sempre più desiderosi d’insegnare qualcosa ai giovani.
L’arte dei fornelli
Così è stato per questi due chef di grido che hanno deliziato il palato di moltissime persone nei ristoranti di tutto il mondo e dopo essersi ritirati dalle scene hanno sviluppato una visione più analitica, più riflessiva rispetto alla loro arte: è bastato che incontrassero un giovane appassionato per far nascere quel vivace dialogo da cui sono venute fuori le ricette qui raccolte, ricette che non sono soltanto una lista di ingredienti e modalità di preparazione ma contengono qualcosa di assai più interessante, un’intenzione didattica più ampia. Il testo infatti non è stato scritto in modo unilaterale da chi l’ha pensato ma è piuttosto il frutto di una conversazione, man mano che lo si compilava è diventato un pretesto per parlare di cose che non riguardavano sempre e solo il preparato specifico ma indicavano un atteggiamento complessivo nei confronti dei fornelli e naturalmente della vita stessa; anche nel linguaggio la scelta delle parole e dei commenti, l’intercalare con quelle frasi che alleggeriscono la lettura, tutto ciò esprime un contenuto che la ricetta classica, nel suo rigore compositivo, non è in grado di trasmettere. La maggior parte dei piatti che troverete qui dentro non sono creazioni assolute nel senso che non vanno a ricercare fantasiosi accostamenti di sapori mescolando ingredienti esotici o spezie particolarmente raffinate, a leggerli con attenzione scopriremo che si tratta di pietanze a noi ben conosciute cui gli autori hanno aggiunto solo un pizzico di fantasia per renderle speciali e personalizzarle.
La gastronomia italiana.
In questo libro i cuochi si sono fatti narratori intervenendo qualche volta uno nelle elaborazioni dell’altro e discutendone anche, se sia meglio usare il burro, l’olio o la margarina in questo e quel piatto, quale vino italiano possa sostituire quello francese, quando si può adoperare del pesce congelato invece di quello fresco e così via; la ricetta diventa in realtà la storia di una composizione. Ci sono alcune osservazioni da fare su quest’esperienza di trascrizione (o se vogliamo, di scrittura a più mani): in primo luogo entrambi gli autori hanno trascorso buona parte della loro vita lontano dalla città natale che è Firenze, l’uno in giro per il mondo sulle navi da crociera e l’altro a Parigi, la capitale della ‘nouvelle cousine’; ci si aspettava forse un repertorio di cucina internazionale ma non è stato così, nel proporre le pietanze non sono andati a cercare chissà dove rivolgendosi piuttosto alla gente cui presumono che il libro debba finire in mano, perché mai? Potevano stupirci ostentando le più incredibili ricette provenienti da ogni angolo del pianeta, imparate nel corso della loro lunghissima esperienza e invece eccoti servire in tavola dei piatti in fondo abbastanza semplici, spesso fiorentini anche se qualche volta chiamati con un nome e cucinati in un modo leggermente diverso dal solito: da artisti quali sono, la loro intenzione evidentemente non era di meravigliare ma di condividere qualcosa, parlando cioè delle cose che tutti conoscono e mostrando in che modo si può intervenire su di esse hanno potuto costruire un ‘discorso’ più generale sul significato dello stare in cucina; l’esempio forse più emblematico è dato dalle Code di rospo (n.13), cotte semplicemente in forno senza aggiungervi assolutamente nulla, nè spezie, né condimenti particolari, con appena un pizzico di sale e un poco unte di burro: l’essenza della semplicità.
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L’attività di ricerca in casa di riposo, uno dei primi video. Interviste e montaggio video di Federico Berti:
Imparare ‘a bottega’.
Il periodo storico in cui hanno vissuto e operato è l’immediato dopoguerra, quando le vacanze in crociera si consideravano un privilegio per pochi e i ristoranti francesi costituivano un modello di gastronomia estremamente raffinata; in quel tempo le scuole alberghiere non erano così diffuse come oggi e non avevano la principale responsabilità nella formazione di un cuoco, il quale piuttosto imparava l’arte alla maniera antica ovvero a ‘bottega’ da qualche maestro più o meno famoso: la loro generazione rappresenta un modo di pensare la cucina differente da quello a cui siamo abituati oggi quando vediamo cuochi giovanissimi, appena usciti da classi prestigiose, mostrare la loro eccezionale tecnica compositiva davanti alle telecamere; secondo la concezione degli intervistati, la professione è più assimilabile a una forma di artigianato, va trasmessa da un maestro a pochissimi apprendisti e non si può studiare nè sui libri né imparare in una scuola istituzionale, ma soprattutto richiede tempo affinché la si possa apprendere correttamente. Trovo significativo l’esempio del Giammartini, suonatore di contrabbasso e cantante ben inserito nell’ambiente dei cabaret francesi, che ha svolto in gioventù la professione del musicista per mantenersi agli studi da cuoco, esattamente il contrario di ciò che fanno tanti giovani al giorno d’oggi che invece lavorano in cucina sognando di diventare la nuova stella della televisione; un esempio altrettanto interessante è offerto da Giuliano, che ad alcune sue originali invenzioni dà lo stesso nome di ricette ben note alla cucina regionale, ma realizzate in modo assai differente; la sua Parmigiana di melanzane (n.39), gustosi involtini di carne e verdura insaporiti da un sugo di pomodoro e formaggio cui viene dato in questo libro lo stesso nome della nota ricetta, oppure il coniglio alla cacciatora da lui fatto rosolare per qualche minuto nel brandy prima della cottura vera e propria, farebbero impallidire le accademie che tanto s’impegnano a preservare le presunte ricette ‘originali’ al punto da brevettarle con tanto di copyright.
L’invenzione delle lasagne.
Ricordo una divertente polemica scatenata qualche anno fa sulla stampa internazionale da un’accademia di cucina inglese che attribuiva senz’altro al popolo di Albione l’invenzione delle lasagne, cosa che suscitò immediata replica da parte dei Petroniani (s’immagini con quali esilaranti risultati): se ragioniamo con la mentalità dei nostri due artisti simili dispute ci fanno sorridere, è evidente che nessuna ricetta può mai essere considerata punto di partenza né di arrivo, ma si inserisce nel più complessivo rapporto fra l’uomo e l’alimentazione, un rapporto mai univoco e sempre in costante sviluppo: basti pensare a com’è cambiato il modo di cucinare le crescentine non solo sulla montagna bolognese da qualche anno a questa parte, l’esigenza di prepararne sempre di più con minore spesa ha reso indispensabile un assottigliamento progressivo della sfoglia che un tempo risultava più spessa e meno lievitata, il risultato è che le crescentine di oggi nutrono meno di quelle che cucinavano le nostre nonne, cosa che per noi è il riflesso di un differente ruolo attribuito oggi a quella pietanza: un tempo doveva saziare, ora è l’alimento principe delle sagre paesane in cui è prevista la presenza di altre botteghe gastronomiche e perciò è bene che la degustazione di un prodotto lasci un po’ di acquolina in bocca per gli altri, altrimenti la salsiccia arrosto o il salame piccante del banco vicino chi li ordinerebbe mai? Ecco perché il quaderno che avete in mano è così importante, perché dice moltissime cose fra le righe a chi sa leggere quel che le parole non riescono sempre a dire.
Interviste, edizione critica.
Il ruolo del curatore è stato di fare le domande necessarie a riordinare le idee chiedendo informazioni più dettagliate sulle dosi, quale tipo di prodotto sia più indicato, se più o meno maturo, se più o meno grande come dimensioni, come va tagliato, cotto, assaggiato, servito, con che vino accompagnare la pietanza: il giovane intervistatore si può in questo caso paragonare alla voce fuori campo del bambino che interrompe i racconti del nonno con domande a volte ingenue, a volte persino irritanti, ma necessarie per lui e per gli altri ascoltatori a usare la favola come strumento di comprensione e di crescita nella vita; da questo dialogo, senza il quale non avremmo avuto che un semplice formulario come quelli che si pubblicano comunemente, nasce il libro. Ringrazo Paolo, Giuliano, e naturalmente l’amministrazione della casa di riposo Villa Val Verde di Montalbano (Fi), che ha mostrato una sensibilità non comune rispetto all’iniziativa. Dato che non si tratta di un manuale vero e proprio ma di una semplice raccolta, le ricette sono catalogate in ordine alfabetico, l’indice è in fondo alla pubblicazione ma suggerisco di leggere una prima volta il libro da cima a fondo come fosse un romanzo; le dosi indicate sono per 4 persone. Auguro a tutti buona lettura e buon appetito”.