Capanne sull’Alpe. Romanzo noir italiano. Download ebook.

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Capanne
sull’Alpe

Il Boia dell’Alpe n.17
Thriller italiano
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Nota dell’editore. La scrittura si fa più nervosa. Erminia Garganelli interrompe bruscamente la narrazione di quanto avvenuto in casa dell’uomo senza nome, per tornare a descrivere il rifugio da cui scrive le sue inquietanti memorie. Non è possibile ricostruire come sia arrivata fin lassù.

Non ho tempo, m’hanno scoperta. L’ho visti passare qui davanti, portavano le maschere e non ho potuto riconoscerli uno per uno. Berretta rossa di lana in testa, mantelli scuri. Camminavano silenziosi nella neve guardandosi intorno circospetti, sono spariti poco più in là dove riprende il sentiero, impraticabile per via della tormenta. L’ho osservati allontanarsi con le racchette ai piedi. Torneranno, devo muovermi. Porterò con me gli appunti, spero di poterli concludere al più presto. Inizio a sospettare che sia vera la leggenda delle capanne sull’Alpe, mi torna in mente quella vecchia storia della fabbrica dismessa, risale a molti anni fa: tutto è iniziato pochi anni dopo il crollo del muro a Berlino, sono stati gli operai a costruire quei rifugi in corteccia di castagno, avevano occupato lo stabilimento in paese e per qualche tempo s’erano messi a gestirlo quasi meglio del padrone, poi dopo lo sgombero forzato si ritirarono lassù iniziando lo sciopero della fame; ne avevan parlato anche i giornali s’avviarono delle trattative, ma nessuno pervenne a un accordo. Tra loro s’infilarono delinquenti comuni e il caso finì come sempre a sassate contro gli elicotteri, le capanne sull’Alpe non vennero però mai smantellate così la gioventù del paese iniziò a usarle nelle notti d’estate: droghe, musica ad alto volume, libidine senza freni. S’erano attrezzati con dei generatori a benzina, autonomi quasi in tutto; cucinavano a legna usando la baracca adibita a mensa dagli stessi operai, avevano sempre carne in abbondanza, cuocevano il pane a legna, raccoglievano erbe selvatiche e s’intendevano di coltivazione diretta. Non erano solo dei giovani spensierati, si vocifera che un ragazzino abbia trovato della carne umana dentro alla minestra, come nelle antiche leggende sui briganti; quando intervenne l’esercito a sgomberarli dovette portarsi dietro un arsenale da guerra di posizione, con tanto di bombe a mano e reparti alpini. Trovarono in quelle capanne un deposito di armi della seconda guerra mondiale, fucili a pompa, moschetti, granate, mine antiuomo, bandiere naziste e gagliardetti. Dopo giorni d’intensi combattimenti quei teppisti vennero sopraffatti dalle soverchianti forze nemiche. Li arrestarono ma al processo furono assolti, in seguito quei ragazzi guadagnarono posizioni di prestigio nell’economia e nella politica del paese, chi mise in piedi una fiorente azienda edile, chi un laboratorio chimico in pianura, uno divenne avvocato, un altro direttore di banca, un comandante di polizia, un maresciallo dell’esercito. La banda contava una trentina di delinquenti comuni, divennero loro i signori del paese. L’ordine nero.



“Trovarono in quelle capanne un deposito
di armi della seconda guerra mondiale,
fucili a pompa, moschetti, granate, mine
antiuomo, bandiere naziste e gagliardetti.
La banda contava una trentina di delinquenti
comuni, divennero i signori del paese.
L’ordine nero”.


Dopo la vicenda giudiziaria e il caso della violenza neo-fascista non si parlò per molto tempo delle capanne sull’Alpe, poi col passare degli anni il comportamento nelle generazioni successive iniziò a cambiare, in particolar modo i figli di quelli che erano stati lassù in montagna manifestavano un’insolita aggressività. Bambini di sette, otto anni si azzuffavano come bestie feroci, graffi, morsi, sassaiole; una violenza inaudita ha portato alcuni comitati cittadini a segnalare il problema. Per quanto ne so un paio di famiglie sono state recentemente ascoltate dal questore di Bologna, finché minorenni è il genitore a rispondere dei propri figli. La crudeltà non è dei bambini continuo a ripetermi, la fantasia delle persone deve aver ricamato su fatti che non sapeva o non voleva spiegarsi, è molto più comodo mettere in giro storie di folletti che prendersi la responsabilità di condannare il proprio bambino per atti di vandalismo, devastazioni e violenze personali. Così è venuta fuori la superstizione dei folletti, serviva da copertura. Le due vicende erano legate fra loro.

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Si teme un assalto di violenta folla. Da qualche settimana l’area dicono sia recintata sotto il sequestro della Procura, ma ignoti han tagliato la rete di protezione; dopo la scena spaventosa della notte scorsa in casa del prete, inizio a sospettare che dietro a quei dubbi si nasconda un pericolo reale, per questo ho deciso di affrontare il mio destino a viso aperto. Non continuerò a nascondermi aspettando che si sciolga la neve per poter scappare lontano, col rischio d’essere comunque rintracciata, sgozzata e lasciata a marcire in un fosso lontano da casa, o arrestata e processata per un delitto che non ho commesso; andrò piuttosto in cerca delle capanne sull’Alpe, scoprirò se qualcuno è tornato ad abitarle, perlustrerò la zona e mi procurerò le prove necessarie a dimostrare la mia innocenza. O morirò combattendo per la dignità del mio nome. Giustizia e libertà. Non ho idea di quel che possa aspettarmi lassù ma non ha senso rimanere qui, sola al freddo: sono a digiuno da giorni, dormo seduta in una casa disabitata senza riscaldamento, avvolta in una coperta piena di buchi, ricercata dalla polizia e braccata da quei folli. Lascio quanto scritto finora a testimonianza della mia buona fede e spero che il tempo mi dia occasione di proseguire il racconto. Ora devo andare. (Continua a leggere)

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Laureato al Dams di Bologna con una tesi sulla narrazione, Federico Berti è cantantautore, polistrumentista, uomo orchestra, pubblica romanzi, poesie, canzoni. “Il Boia dell’Alpe” è ambientato nel paese di Monghidoro sull’Appennino Bolognese, dove risiede stabilmente dal 2001.

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Romanzo di Federico Berti
ISBN 9788822881595. 

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