Destra e sinistra, dov’è la differenza? Ne parliamo con Domenico Losurdo.
Destra e sinistra,
dov’è la differenza?
Ne parla Domenico Losurdo
Ripropongo questo mio articolo di qualche anno fa, come riflessione ‘a monte’ nei giorni in cui il governo cosiddetto giallo-rosso prende accordi per insediarsi al posto della fallimentare coalizione con la Lega di Matteo Salvini. La vera sfida ora è cambiare il linguaggio della politica, la modalità stessa del confronto democratico. Sarebbe già un risultato dignitoso.
L’INTERVISTA AL PROF. LOSURDO
Nei vent’anni di populismo reazionario che hanno preceduto il crollo della finanza mondiale, s’è propagandato ovunque il concetto di sostanziale equivalenza fra destra e sinistra, vanità delle ideologie, primato d’una democrazia che a ben vedere sembra essere stata quasi completamente esautorata delle sue funzioni, al punto che le stesse elezioni politiche non sono più una condizione realmente necessaria al cambio d’un governo. E’ in questa fase tanto critica, piena di drammatiche tensioni sociali, che riproponiamo un’intervista al professor Domenico Losurdo, docente di Filosofia della Storia all’Università di Urbino, tra gli intellettuali che han dato il maggiore contributo alla decostruzione del metodo revisionista. Interrogato sulla natura del totalitarismo nazifascista e quella delle dittature nate dal socialismo, spiega il motivo per cui l’equivalenza imposta dai media nel mercantilismo neoliberista è illegittima, falsa, volutamente distorta. Il fondamento stesso del revisionismo storico è stato del resto non solo smentito da un punto di vista propriamente scientifico, ma anche perseguito penalmente per l’incitamento all’odio razziale che comporta e le azioni criminali commesse da chi lo propaganda, basti pensare alla condanna di uno fra padri fondatori di questa pseudoscienza, David Irving, e alla sua vicenda personale.
DOV’E’ LA DIFFERENZA
Nell’intervista qui proposta Domenico Losurdo afferma che per capire il socialismo e la differenza fra destra e sinistra bisogna ripartire dal concetto universale di uomo, pensando alla schiavitù e al genocidio colonialista. Come spiegare il primato assoluto che alcuni esseri umani pretendevano di possedere sugli altri, se non prendendo atto che alle popolazioni sottomesse non veniva riconosciuto lo status naturale dell’uomo? Schiavi, barbari, venivano considerati degli animali e come tali non avevano diritti, un pensiero cui nemmeno la filosofia di Aristotele riesce a sottrarsi. Nel colonialismo europeo d’oltreoceano, i nativi eran trattati come esseri subumani che si potevano tranquillamente uccidere senza incorrere nel crimine di omicidio, poiché non erano uomini. Lo stesso atteggiamento rispetto ai lavori salariati nell’Inghilterra fra il ‘600 e il ‘700 non fu diverso da quello successivamente sviluppato dai razzisti verso le persone di colore, un punto di vista che possiamo sbrigativamente riassumere nell’antico motto ‘popolo bue’. S’è faticosamente sviluppata una categoria universale di uomo solo attraverso la nascita, lo sviluppo e la diffusione delle idee socialiste, proprio quelle stesse che oggi vengono invariabilmente accusate di totalitarismo.
LA NOZIONE DI ‘POPOLO ELETTO’
La barbarie nazista parte dall’assunto del primato d’un popolo eletto per dominare sugli altri, con la distruzione sistematica di quel concetto che s’era andato costruendo nel secolo passato all’avvento di Hitler. Nel momento stesso in cui viene formulata una categoria di unter menchen, ovvero sotto uomini, si giustifica la guerra di sterminio rivolta contro le popolazioni dell’Europa orientale, la persecuzione di ebrei, degli zingari e più in generale la sopraffazione dei più deboli richiamandosi proprio allo sterminio degli Indios da parte degli spagnoli, alla più brutale eredità del colonialismo. E’ evidente che l’assimilazione del comunismo al nazismo non ha senso, perché nel primo c’è una carica universalistica di tensione verso la giustizia assente nel secondo, non a caso una delle prime conseguenze della Rivoluzione d’Ottobre fu un richiamo alle colonie, incitate a ribellarsi combattendo per l’emancipazione dalla schiavitù, una costante che ha accompagnato i sessant’anni dell’Internazionale guidata dall’Unione Sovietica. Là dove il comunismo ha fieramente osteggiato il lavoro coatto, il nazismo ha agito in maniera esattamente opposta, ripristinandolo anche dov’era stato superato.
GRAMSCI E IL ‘CESARISMO’
Il professor Losurdo aggiunge una considerazione sull’istituzione dell’esercito nazionale negli stati monarchici e sul potere assoluto di vita e di morte che questi vantavano sopra milioni di persone mandate a morire per il profitto d’una minoranza, ricordando che la Rivoluzione d’Ottobre ha tratto il suo maggiore impulso proprio dal rifiuto di questo potere, dalle diserzioni in massa e dalla costituzione di milizie popolari pronte a combattere per ritrovare la dignità di uomini che l’assolutismo non riconosceva. Richiamandosi alla distinzione fatta da Gramsci tra Cesarismo progressivo e regressivo, a sua volta consapevole della categoria di Bonapartismo elaborata da Marx, ne mette in risalto il limite fondamentale che poi rivelerà il punto debole delle sinistre moderate in ogni tempo: quando la borghesia reprime nel sangue le insurrezioni operaie, non fa che istituire la sua dittatura mediante la spada, ma paradossalmente questa finisce poi col trasformarsi in una dittatura della spada in quanto tale sulla società nel suo complesso, borghesia compresa. E’ in questo senso che l’equivalenza tra comunismo e nazifascismo non ha legittimità storica.