Le unghie della morte.

 

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Il boia dell’Alpe

La maldicenza uccide

Romanzo di Federico Berti
ISBN 9788822881595.

 

 

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Le unghie della morte

Sulle mura cadenti della casa in sasso i cristalli di ghiaccio luccicano come le onde in cui si riflette il primo sole, una tomba a cielo aperto sul fianco dell’Alpe si spalanca davanti a noi. La vedova parla a segno. Suo padre faceva il becchino, quelle ossa murate nella parete non han segreti; una donna ha dormito là dentro per secoli, indossa ancora il saio di non so quale ordine religioso, “La montagna è piena di sorprese, le mostra quando meno te l’aspetti” mormora lei con un fil di voce aggirandosi tra le rovine della casa torre. “Per molto tempo han tenuto l’osteria qui dentro ma nessuno del posto ci andava, dicono si sentissero i lamenti notturni della sposa murata viva seicento anni prima, allora per qualche tempo ne han fatto una specie di bordello. Proprio una vera casa d’appuntamenti, aperta solo di giorno; andò in malora pure quella, venne quindi presa in gestione da giovani avvinazzati che alle ore piccole arrivavano troppo gonfi di vino per accorgersi delle voci di dentro; poi la guerra, le bombe, nessuno l’ha voluto più a mano il locale ed è rimasto così diroccato per sessant’anni, invaso dai rampicanti; il diavolo non è un buon giardiniere. L’acquistò allora un vecchio albergatore sordo da un orecchio, che non sentiva la radio ma colla sposa nel muro ci parlava sempre volentieri anzi, l’aveva fatto scrivere sul giornale perché sperava di attirarvi i turisti da Bologna, così appaltò a un’azienda i lavori di ristrutturazione e vennero a tirar su le impalcature; lo ritrovarono carbonizzato dentro una seicento. Autocombustione, dicono. Mafia, più probabile. L’ultima nevicata ha scoperchiato il muro portante, così ora la sepolta viva è tornata a respirare l’aria fresca dell’inverno.

“Viviamo circondati da cadaveri e non lo sappiamo” riprende la donna. “Nella mia borgata c’è ancora il pozzo con le lame arrugginite che vengon fuori dalle pareti, affilate come le unghie della morte” ha lo sguardo perso nel vuoto, come se rivedesse in cuor suo i luoghi dell’infanzia. “Un ricco imprenditore della pianura comprò la villa per ristrutturarla, ne cavò abbastanza ossa da costruirci un arco di trionfo, pure il teschio d’un capretto e qualche moneta d’oro che risaliva al tempo dell’antica Roma. Uno degli scheletri portava l’uniforme dell’esercito francese”. Ascolto senza dire una parola, non capisco dove voglia arrivare. “Vedete, chissà quanti poveracci son rimasti murati vivi nei ponti dell’autostrada o sotto i binari della Direttissima, assassinati e poi scomparsi nel nulla. Delitti d’onore, gente che non stava zitta”. E’ convinta che qualcuno abbia aiutato il povero boscaiolo a impiccarsi e devo essere sincera inizio quasi a crederlo anch’io. La vecchia sospira, “Non se la prendono mai col primo che capita ma sempre con chi non bacia le mani al potente di turno; un tempo si riparavano dietro la benedizione del prete, ora non han più controllo. Non mi lamento però, chi è causa del suo mal pianga sé stesso: omertà è connivenza”. Veneranda alza gli occhi al cielo parlando con voce assente. La interrompo, ho diritto a una spiegazione. “Voi mi avete ingannato. Da giorni continuate a seguirmi scatenandomi dietro una folla di scalmanati che si nascondono dietro maschere terrificanti, eravate voi in piedi accanto alla statua di Padre Pio che tiravate cipolle marce contro le finestre della canonica: volevate consegnarmi al tribunale del popolo, così avete detto, per un crimine che non ho mai commesso. Mi son dovuta riparare in casa del dottor Salasso, poi nelle baracche, solo per sottrarmi alla furia dei vostri uomini. Ora dovrei fidarmi di voi?”.

 

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Mentre pronuncio queste parole, la vecchia mi sorride con tenerezza quasi materna, poi muove qualche passo strisciando le racchette sulla neve e strofinandosi colle braccia i fianchi per il freddo, riprende: “Erminia la vostra colpevolezza per le ridicole malelingue di cui vi siete resa responsabile, è ben poca cosa rispetto alla malizia di chi v’ha usata come strumento di morte”. mi guarda con attenzione, vuole sapere se riesco a seguire il suo ragionamento. “Voi avete ripetuto quanto altri venivano a dirvi sul suo conto, l’immagine del maniaco perdigiorno è stata ben congegnata da chi manovrava la macchina del fango: han semplicemente scelto la persona più vulnerabile, v’han fatto credere di essere là per proteggervi e voi gli avete creduto, ma eravate solo uno strumento Erminia. Non ve ne siete mai accorta. Ne uccide più la parola”. Sono sconcertata da queste rivelazioni. “Come fate a dirlo?” domando, nervosa. La vedova si fa seria in volto, “Anacleto non aveva nessuno all’infuori di me, parlavamo spesso di queste cose: era dispiaciuto per il vostro atteggiamento e non comprendeva la ragione di tanto disprezzo, in verità era sulle tracce d’un sodalizio criminoso il cui danno ricadeva anche sulle vostre tasche e su quelle di noi tutti, desiderava solo aprirvi gli occhi”. Mi balena un ricordo. Lo trovai accasciato sulle scale privo di sensi una mattina di febbraio, l’avevano pestato a sangue e gli prestai un primo soccorso, ma non volli testimoniare al processo. In tribunale venne fuori la storia del depravato molestatore, vi credetti più per convenienza che per convinzione e da allora cominciai a interpretare tutti i suoi comportamenti come possibili conseguenze d’una mente malata. Diventò il mio incubo. Mi sono resa ingenuamente complice della sua demolizione fisica e mentale, chissà quante altre persone vennero coinvolte nel medesimo incanto per ridurlo in quello stato, convinsero persino sua moglie e il datore di lavoro. Lo marchiarono col segno di Caino fino a divorargli l’anima, aspettavano solo il momento propizio per gettarlo nel pozzo o murarlo vivo, nel frattempo iniziarono il trattamento coll’arsenico. Un pensiero m’assale, Asfodelio Maccheroni. Devo avvisare la vedova del pericolo(Continua a leggere)

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