Le presunte imprese coloniali dei Pelasgi
Le presunte imprese
coloniali dei Pelasgi
Articolo di Federico Berti
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Abstract: Il mito dei Pelasgi in Italia assume in alcuni autori greci e latini l’aspetto di un racconto epico ambientato nella tarda età del bronzo, nel quale prendono vita le imprese coloniali di un po-polo venuto dall’Epiro, dedito alla guerra e alla costruzione di mura megalitiche. Un racconto leggendo il quale è difficile non pensare ai Micenei, di cui è attestata la presenza in Italia a partire dal XII secolo a.C. La tesi qui sostenuta è che del mito pelasgico si siano serviti i coloni della Magna Grecia per legittimare la loro presenza sul territorio della penisola, in aperta competizione con le popolazioni di lingua Osco-umbra e Sicula.
A proposito del mito coloniale dei Pelasgi in Italia, l’archeologo napoletano Nicola Corcia ne ricostruisce alcune tra le narrazioni trasmesse dalle fonti letterarie dei Greci e dei Latini, fonti che si di-scostano dal topos del popolo primigenio altrove riproposto1, prendendo l’aspetto proprio di una tradizione più manifestamente epica, nella quale si narrano i viaggi e le conquiste da parte di una piccola comunità, scacciata da una regione della Grecia nota come pelasgica, nel senso di ‘popolo della pianura’ ed emigrata nella penisola italica attraverso l’Adriatico2. Si fa notare che l’autore tesse abilmente una serie di racconti prodotti dagli intellettuali dell’epoca classica, i quali presumono di riferirsi a tre secoli e mezzo prima della guerra di Troia, desunti in parte dalla letteratura dei cantori, in parte dai toponimi, in parte da memorie collettive trasmesse per lo più oralmente attraverso le generazioni. Trame confuse in cui la dimensione mitica prevale decisamente su quella storica: leggendo il racconto del Corcia, si respira la stessa aria dell’Eneide3 virgiliana.
Veniamo dunque ai fatti. Nell’avvincente narrazione dell’archeologo napoletano, un popolo stanziato nella Tessaglia intorno a quindici secoli prima dell’era cristiana4, venne scacciato dalla propria sede primitiva e si stabilisce in una regione più occidentale del territorio greco, la quale però dopo un po’ di tempo non riesce a sfamare l’intera comunità, che dunque emigra. Stando alla sua versione del racconto non dobbiamo immaginare un grande popolo, ma una piccola comunità che i letterati greci immaginavano potesse abitare in una sola città5. Questi Pelasgi dunque prendono il mare, risalgono lungo le coste dell’Adriatico e sbarcano sul delta del Po, dove lasciano un presi-dio militare per coprire un’eventuale ritirata in caso di malevola accoglienza da parte di coloro che sono già insediati su quel territorio. Iniziano quindi a discendere lo stivale attraversando gli Appennini.
Secondo il Corcia questi migranti conquistatori prendono con relativa facilità il controllo delle regioni centrali corrispondenti al territorio delle Marche, dell’Abruzzo e del Molise, spingendosi fino in Lucania e da lì nel Salento. Una parte di loro prosegue l’espansione militare assoggettando la Toscana, il Lazio e la Campania, spingendosi fino in Sicilia e dunque unificando la penisola sotto uno stesso dominio6. Nel compiere quest’impresa i Pelasgi respingono, sotto-mettono o assimilano, tutti i popoli da loro incontrati lungo il cammino, in modo particolare Umbri, Aborigeni, Siculi, Aurunci, edificando cittadelle dalle mura ciclopiche7. Sarebbero queste secondo lui le vestigia del ‘popolo primigenio’ da cui discenderebbero le genti italiche. Ricordiamo sempre l’anno a cui risale questo articolo, il 1839. Siamo in pieno Risorgimento, gli eventi di cui parla si presumono avvenuti nella tarda età del bronzo.
Secondo questa epopea coloniale i Pelasgi avrebbero eretto i primi centri abitati a Cuma, Pompei, Ercolano, Nocera, Ischia e Capri, elevando gli antichi italici a un grado superiore di civiltà per essere poi a loro volta vinti e dispersi o assoggettati dai Sanniti. Un mito che ben si attaglia alle ambizioni dell’Italia nel Risorgimento, quella in cui viveva Nicola Corcia, secondo cui la sottomissione di un popolo con le armi può essere portatrice di civiltà8. E’ in questo scenario che l’archeologo riprende e discute l’ipotesi di una principessa Partenope venuta dalla Tessaglia, considerando il mito della Sirena successivo a quello del personaggio storico9. Come si è detto in apertura di questo articolo sono tutte congetture desunte da racconti leggendari, poemi epici, supposizioni di letterati che scrissero un millennio dopo il supposto accadimento.
Quel che a noi interessa notare è come i Pelasgi in tale racconto assolvano una funzione radicalmente opposta a quella del popolo primigenio, descrivendoli in realtà come una piccola comunità di emigranti che pone sotto il proprio dominio altre popolazioni ‘pelasgiche’, ovvero altri insediamenti umani, alcuni dei quali si uniscono spontaneamente a loro lasciandosi inculturare, altri si oppongono. Il racconto ricostruito da Nicola Corcia, sembrerebbe attribuire a un popolo cui alcuni autori greco-latini diedero il nome di Pelasgi, un’ondata di espansione di cultura micenea nella penisola italica10. Tutto corrisponde all’ascesa e alla caduta dei micenei, il periodo del tardo neolitico intorno al XVI secolo a.C., la regione dell’Epiro da cui questa popolazione avrebbe mosso le proprie conquiste, il tema ricorrente delle mura ciclopiche. Micenei dunque, dei quali è attestata la presenza in tutto il Mediterraneo e che notoriamente furono abili guerrieri, in cui taluni identificano gli Achei del ciclo omerico. Proto-greci, insomma.
Il problema di questa sovrapposizione, è che nell’articolo del Corcia si descrivono i Pelasgi come un popolo che non lasciò mai testimonianza scritta di sé, del quale i contemporanei non parlarono abbastanza da sottrarlo alle tenebre dell’oblìo. Al contrario, la cultura Micenea era in possesso di un sistema di scrittura articolato, la cosiddetta Lineare B. Il racconto presenta inoltre alcune discrepanze con la storia delle popolazioni di lingua Osco-umbra e degli stessi Siculi, poiché la presenza degli uni e degli altri è attestata in Italia solo a partire dalla seconda metà del II millennio a.C., più precisamente intorno al XII secolo, comunemente associati a una cultura di tipo villanoviano11. Un popolo di palafitte e terramare dunque, evolutisi poi nei Latini e negli Etruschi che i Greci incontrarono durante le loro imprese coloniali del V secolo, e dei quali avevano tutto l’interesse a rivendicare una precedente dominazione ‘pelasgica’ o come a questo punto dovremmo più correttamente affermare, micenea.
Per i nuovi coloni provenienti dal Peloponneso, le tradizioni intorno alle conquiste degli Achei nel Mediterraneo dovevano avere la funzione di legittimare la loro presenza nei territori in cui man mano si andavano insediando12. Retrodatare questa presenza a tre secoli e mezzo prima di Troia, significava affermare sé stessi come un popolo primigenio, discendente da quel popolo di guerrieri e conquistatori che doveva aver già sottomesso in un remoto passato gli antenati dei popoli allora presenti sul territorio. Il mito dei Pelasgi in Italia assume ancora una volta, nel racconto di Nicola Corcia, i connotati di un topos coloniale riproposto per giustificare le pretese unitarie del nazionalismo risorgimentale. Questo racconto è tuttavia figlio a sua volta di una colonizzazione dell’immaginario13 da parte dei Greci stessi, che promossero con ogni mezzo a partire dall’VIII secolo la narrazione della presenza micenea sul territorio italico prima della guerra di Troia, per giustificarvi la propria.
Bibliografia
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Bérard, Jean, La Magna Grecia. Storia delle colonie greche dell’Italia meridionale,Torino, Einaudi, 1963, p. 463.
Corcia, Nicola, De la Venuta de’Pelasgi in Italia, in: ‘Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti’, n. 46, Napoli, 1839.
Devoto, Giacomo, Gli antichi Italici, 2ª ed., Firenze, Vallecchi, 1951.
Marchi, Valerio, “L’Italia” e la missione civilizzatrice di Roma, in: ‘Studi Storici’, Anno 36, No. 2 (Apr. – Jun., 1995), pp. 485-531.
Musti, Domenico, Magna grecia. Il quadro storico, Bari, Laterza, 2005.
Pausania, Descrizione della Grecia, I, XVIII.
Vagnetti, Lucia, Espansione e diffusione dei Micenei, in: I Greci: storia, cultura, arte, società, Einaudi, Torino, 1997.
Note
1Le varie ipotesi intorno alle vicende relative ai Pelasgi, si trovano riassunte in Jean Bérard, La Magna Grecia. Storia delle colonie greche dell’Italia meridio-nale,Torino, Einaudi, 1963, p. 463.
2N. Corcia, De la Venuta de’Pelasgi in Italia, in: ‘Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti’, n. 46, Napoli, 1839.
3La dinamica dell’impresa pelasgica è in tutto simile a quella dello sbarco ad Anzio del troiano Enea, ma speculare e precedente a questa.
4Corcia, op. cit, p.8: “Questa pelasgica dispersione avvenne dunque secondo lo storico di Alicarnasso a’ tempi di Deucalione, e della famosa inondazione che nelle più antiche greche tradizioni va sotto il di lui nome, e che al più tardi avvenne dieci o quattordici anni’ avanti che cominciasse a regnare in Licoria, ossia nell’anno 31 di Cecrope e però 344 anni avanti la presa di Troja. Vero è che il marmo di Paro pone il principio del regno di Deucalione nel nono anno di quel principe ed Eusebio nel XVI , e quel diluvio secondo un altro computo non fu anteriore alla caduta di Troja che di 320 anni; ma queste diversità di calcoli debbonsi avere come sì lievi da non dovere soffermar troppo in un avvenimento di epoca così remota”.
5Secondo il Corcia, prima di prendere il mare, i Pelasgi emigrati dalla Tessaglia si sarebbero stabiliti per un certo periodo a Dodona, sempre sul territorio greco. Vissero dunque in un territorio molto ristretto, non potevano essere un popolo molto numeroso. Per una ricostruzione del racconto greco intorno a Dodona, si veda Pausania, Descrizione della Grecia, I, XVIII.
6Nel ricostruire il suo racconto, Nicola Corcia fa riferimento ad autori greci e latini: Erodoto, Iginio, Diogene Laerzio, Dionigi di Alicarnasso, Strabone, Tacito, Plinio il Vecchio, Servio e altri, comparandone le ricostruzioni con la toponomastica italiana e gli studi del suo tempo sulla linguistica comparata.
7Nella fretta di legittimare l’impresa pelasgica, l’archeologo si spinge fino ad af-fermare che furono i Pelasgi a civilizzare gli Etruschi, Corcia, op.cit. p.12: “Gli Etruschi ricevettero da’ Pelasgi gli elementi delle arti e i lumi religiosi”. Alla luce delle indagini più recenti, questi ultimi però si sarebbero in realtà evoluti solo intorno al IX secolo da un precedente sostrato villanoviano, sarebbero quindi più debitori verso gli Osco-Umbri che verso i micenei.
8Solo quarant’anni dopo l’articolo del Corcia, il neonato Regno d’Italia intra-prenderà la sua maldestra impresa coloniale, culminata nella disfatta di Adua nel 1896, giustificata agli occhi del popolo italiano dal topos narrativo della missione civilizzatrice. Si veda a questo proposito Valerio Marchi, “L’Italia” e la missione civilizzatrice di Roma, in: ‘Studi Storici’, Anno 36, No. 2 (Apr. – Jun., 1995), pp. 485-531.
9Tesi poi ripresa da Gionata Barbieri, La Sirena Partenope ed i nummi neapo-litani, in: ‘Napoli’, XI-MMVII.
10Sull’ascesa, l’espansione e il declino dei popoli micenei, si veda il contributo di Lucia Vagnetti, Espansione e diffusione dei Micenei, in: I Greci: storia, cultura, arte, società, Einaudi, Torino, 1997.
11Sulle indagini relative agli Osco-umbri e ai Siculi, si rimanda all’opera fonda-mentale di Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, 2ª ed., Firenze, Vallecchi, 1951. Sull’evoluzione degli Etruschi dai Villanoviani, Gilda Bartoloni, La cultura villanoviana. All’inizio della storia etrusca, Roma, Carocci, 2012.
12Sulle vicende relative al quadro storico in cui avvenne la colonizzazione greca della penisola italica a partire dall’VIII secolo a.C., in modo particolare per ricostruire le relazioni che i coloni greci dovettero intessere con i popoli allora insediati sul territorio, si rimanda a Domenico Musti, Magna grecia. Il quadro storico, Bari, Laterza, 2005
13Sul concetto di ‘colonizzazione dell’immaginario’ rimando a Federico Berti, Guerra cognitiva, in: Rivoluzione interiore, Bologna, Streetlib, 2023.
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