L’archivio dei pazzi. Romanzo, fantascienza. L’ospedale fantasma n.10
L’archivio
dei pazzi
L’ospedale fantasma n.10
Romanzo di Federico Berti
FANTASCIENZA ITALIANA
GIORNO DI PULIZIE
Da quando sono sceso nell’antinferno della biblioteca le telecamere non mi lasciano in pace. E’ giorno di pulizie nella residenza giudiziaria Alderico Barbacani, una sarabanda chiassosa di carcerati va e viene senza logica apparente. L’isterica imperatrice ha previsto tutto, compila i turni a pianificazione semestrale per appenderli fuori dalla stanza degli interessati. L’unico posto dove non entra una scopa è la sua cella personale. Per via dei ragni, li accudisce con malata dedizione. Dormono con lei. Il letto è ricamato da un filo di ragnatela che l’avvolge tutta in voluttuoso abbraccio, vedova nera nel cuore della rete assediata dai corteggiatori. Dal tramonto all’alba le camminano addosso quelle bestioline solleticandola e stuzzicandola sul collo, nei fianchi, le gambe, il ventre. L’attempata vedova reagisce come una silfide in calore. Lascia fare, le piace. Nel palazzo avviene intanto un drastico rivolgimento, scopa, ramazza, spugna, le bacinelle armate come potenti ordigni al detersivo; sulle pareti rulla senza pietà l’imbianchino messicano, va cancellando le sue opere dopo averle immortalate in ritratto fotografico.
Si rivolta contro sé stesso, Manuel Sandino. Non vuole che un domani si possa speculare sul proprio lavoro, per questo intonaca di bianco i murales; qualche maligno è dell’avviso che l’operazione, sbandierata ai quattro venti, serva solo ad aumentare il valore delle opere salvate dallo scempio. La pubblicità segue a volte una logica perversa. Gustavo La Spada nel frattempo arranca trascinandosi il manico di scopa come uno scarafaggio intento a rotolare gigantesche palle di merda, a ogni passo la morfina gli rende le gambe più pesanti, dai suoi piedi sente ramificarsi radici nodose che spaccano il linoleum, affondano nel cemento. E’ un tronco bruciato dai fulmini. Nello stesso momento le tre pie donne dell’oratorio si sono infilate in tasca il rosario e van per i corridoi cantando spensierati ritornelli. Moschettieri dello spolverino. Giorno di pulizie al Barbacani di Lusiano, qualcuno paga i debiti di gioco sturando la colonna fecale, disinfestando i sanitari dai topi, dalle piattole, dalle vespe che modellano le loro navicelle di ceramica nell’incavo dello stipite, negli interstizi delle finestre chiuse.
UNA RISSA TRA CUOCHI
Lavoro a testa bassa. Devo aver destato sospetti nei giorni scorsi e temo che l’intraprendenza possa a lungo andare procurarmi dei fastidi. Ho letto la tabella dei turni. L’imperatrice è maniacale, segna persino i tempi dell’esecuzione in modo che non abbia a incepparsi la catena, li calcola sulla base delle abilità dimostrate sul campo. E’ incredibile quanta spaventosa efficienza possa venire da una mente squilibrata. Per smaltire la raccolta dei rifiuti ho una delega ad attraversare la strada fuori dal cancello dell’ospedale, avrò percorso almeno dieci volte le rampe di scale caricandomi quei pesanti bidoni dal lussureggiante olezzo, sempre col solito angelo custode che mi ronza a un palmo dal volto; dovesse sbagliare il calcolo della traiettoria, finirebbe col tagliarmi il naso.
Ripenso alle note raccolte nei giorni scorsi: vorrei conoscere l’identità dell’uomo senza nome che alloggia solitario nel seminterrato e verificare che l’architetto sia stato veramente qui, ma il solo modo è consultare i registri della povera Ecclesiarda. Nella sua compulsiva ossessione se qualcosa accade all’interno della struttura lo viene a sapere, mi fido più della sua autistica penna che non delle macchine sempre in conflitto con sé stesse. M’è sembrato di cogliere nel romanzo di Lucrezio impliciti riferimenti al limbo surreale in cui viviamo, come se l’autore di quelle pagine graffianti, satiriche, a tratti buffonesche, avesse voluto lasciare una traccia da percorrere all’indietro. Volendo far luce sulla sua morte dovrò seguire quel filo d’Arianna ricostruendo il motivo per cui è finito fra queste desolanti mura. Cosa può aver fatto o visto.
L’occasione si presenta inaspettata, la solita canizza tra farabutti che ricade sulla pelle degli ammalati veri, quelli che non han soldi per curarsi e devono sottoporsi al programma di convivenza. Porfirio Squacquerone è venuto alle mani col vecchio Asmodeo Tartaglia per una questione di lana caprina, stavano pulendo i vetri nella sala d’aspetto dei parenti e discutevano animatamente sul burro e la pancetta nel gateau di patate: sono i responsabili della cucina, quando non si trovano d’accordo su dettagli per loro fondamentali è subito incidente. Ho visto volare polli arrosto con tutta la plancia d’acciaio. Son venuti alle mani anche stamattina e la stessa Ecclesiarda è rimasta coinvolta, nella colluttazione le gambe nervose hanno agganciato i cavi di alcune indispensabili apparecchiature per moribondi. Sfiorata la tragedia. Un’intera camerata sull’orlo dell’abisso, povere larve indifese ansimavano contorcendosi tra le lenzuola schiumanti alla bocca.
Nella confusione l’imperatrice ha perso il ciondolo con la chiave della sua stanza, non se n’è accorta e le macchine erano impegnate in ben più urgente protocollo. Nessuno aveva occhi per me. Raccolgo il pendaglio, apro la piccola scatola portagioie, afferro la chiave, richiudo e lascio in terra la collana. Ci metterà un po’ per rendersene conto. Rianimare i malati terminali potrebbe richiedere anche diverse ore, è un’opportunità da non sciupare: salgo le scale due alla volta, raggiungo in men che non si dica la soffitta. L’archivio dei pazzi è dietro quella porta. Giro la chiave, sento scattare il lucchetto. (Continua)