La Regina degli Scacchi. Perché è importante parlarne.

La Regina degli Scacchi

Perché è importante parlarne

Articolo di Federico Berti

Si è molto detto della serie Netflix che ha sbancato gli incassi della trasmissione in streaming qualche anno fa, La regina degli Scacchi. E’ molto curata nella sceneggiatura, nei costumi, nella ricostruzione storica, si direbbe quasi un biopic basato sulla biografia di un personaggio vissuto realmente. La storia è quella di una giovane orfana che manifesta fin da bambina un’inclinazione particolare per il gioco degli Scacchi, ma che per tutta la sua adolescenza e poi gioventù si ritrova ad affiancare grandi successi nel gioco a momenti di crisi per dipendenze da psicofarmaci, alcool e stupefacenti. Per la ricostruzione delle grandi sfide internazionali, il contegno dei giocatori, il rituale stesso dell’incontro, la produzione si è avvalsa niente meno che di Garri Kasparov. Basata sul romanzo di Walter Tevis The Queen’s Gambit, ovvero Il gambetto di Regina, da cui il titolo inglese della serie banalizzato nella sua traduzione italiana, la storia che racconta non è quella di un personaggio realmente esistito, ma come lo stesso autore del libro ha più volte spiegato si ispira a diversi personaggi che hanno vissuto la storia degli Scacchi nel periodo della Guerra Fredda.

In primis l’autistico Bobby Fischer, con le sue ossessioni e manie di persecuzione, la sua intuizione e le sue nevrosi, la sua dipendenza dall’alcol, il suo carattere antisociale ma soprattutto, l’ostinazione con cui si pose l’obiettivo di battere il gioco di squadra dei sovietici, padroni della scena in quegli anni. E’ un argomento di grande interesse perché la storia del rapporto fra l’Unione Sovietica e il gioco degli Scacchi risale allo slogan degli anni ’20 Scacchi al popolo con cui Nikolaj Krylenko rivendicava la necessità di diffondere e promuovere la disciplina nel basso proletariato, non solo per abbattere il privilegio che vedeva nel nome stesso del gioco (dal persiano Sha, letteralmente Gioco dei Re) una prerogativa degli aristocratici e dei benestanti, ma più ancora per l’effetto che ha sul potenziamento dell’intuizione e l’efficienza della mente, sottoposta a un pesante addestramento sulla combinatoria delle posizioni. E’ per questo motivo che gli Scacchi divennero presto oggetto d’insegnamento nelle scuole fin dall’età primaria, e l’agonismo assunse presto le proporzioni che noi oggi attribuiamo a sport come il calcio, o il baseball per gli americani. L’ossessione di Fischer per il confronto con i Russi trovò generosi finanziatori e la sua sfida divenne il simbolo di una competizione tra due modi di intendere il mondo e la vita.

Un tema che risultò particolarmente caro alla stampa di allora è la denuncia con cui l’americano si oppose al modus operandi russo, che notoriamente non si basava sulla sola competizione individuale. Gli scacchisti sovietici si aiutavano tra loro sia nella fase dell’addestramento, sia nella conduzione stessa dei tornei, dove preferivano evitare lo scontro diretto fra loro per non lasciare agli avversari trascrizioni di partite da studiare che potessero renderli vulnerabili. Questo è un aspetto che tuttora permane in quei giocatori che hanno imparato il gioco degli Scacchi nei paesi del blocco socialista, dove si giocava nei bar, nei giardini pubblici, nei contesti informali dove la partita si allargava spesso al pubblico stesso. Questo aspetto della controversia tra l’individualismo occidentale e il collettivismo sovietico, che ritorna più volte nella serie Netflix, è in realtà una nota portante nella vita e nell’arte di Bobby Fischer, così come lo è l’insano rapporto fra Scacchi, delirio paranoico, comportamenti antisociali caratteristici di alcuni giocatori occidentali, non dei russi che affrontavano la scacchiera con tutt’altro atteggiamento.

Un altro tema che ricorre nella serie Netflix La Regina degli Scacchi è il rapporto fra questo ambiente, tradizionalmente maschile, e le donne. Per quanto vi siano state decine di campionesse, la tendenza è tuttora ad associare gli Scacchi a una socialità misogina, una visione profondamente sessista del gioco. In questa prospettiva si inserisce la controversia giudiziaria di Nona Gaprindashvili, campionessa femminile degli Scacchi che ha fatto dell’inclusione di genere una battaglia politica per tutta la sua vita e ha denunciato Netflix per aver distorto alcuni dei suoi grandi successi non solo nel gioco, ma anche nella sua dinamica di genere. La serie ha contribuito alla popolarità che gli Scacchi stanno tornando ad avere negli ultimi anni e nella sempre maggior partecipazione delle donne, tuttavia ancora oggi si fatica a comprendere il motivo per cui dovrebbe distinguersi tra campionato maschile e femminile in un gioco basato sull’intelligenza e non sulla prestanza fisica. I tornei più premiati sono quelli maschili, a parità di prestazione ancora una volta la donna risulta penalizzata.

Un’ultima nota è indispensabile per chi si avvicina al gioco, ed è da ricercarsi nella pericolosa associazione che il film pretende di fare tra assunzione di psicofarmaci, alcool e stupefacenti, in relazione al confronto sulla scacchiera. E’ provato scientificamente che non esistono sostanze dopanti in grado di migliorare le prestazioni nel gioco degli Scacchi, al contrario ogni sostanza e ogni dipendenza contribuiscono di fatto a un peggioramento del risultato. L’individualismo sfrenato dell’occidente e la sua visione superomista, portano all’illusione che passare le proprie notti sdraiati al letto giocando partite immaginarie sul soffitto della propria stanza possa costituire una qualche forma di innata genialità, una visione che deriva dalla mistica del prescelto nella letteratura nord-europea, il Wagneriano Sigfrido che vince perché protetto dagli dèi. Nella scuola sovietica gli Scacchi non sono questo. Come insegna lo stesso Kasparov, sono insieme un’arte, una scienza e un gioco. Nessun’ intuizione può sostituire lo studio, e se il gioco finisce per dare scacco matto al giocatore allora vuol dire che qualcosa non va nel modo in cui lo stiamo affrontando. E’ in questo senso che la frase conclusiva pronunciata dalla campionessa nel romanzo di Walter Tevis, quando si ferma nei giardini pubblici, siede al tavolino di legno con un anziano pensionato, lo guarda negli occhi e dice: “Giochiamo!”, si può dire che riassuma il senso di tutto il romanzo.

Rassegna stampa

  • F.Q., ‘Il Fatto Quotidiano’, 19 Settembre 2021, La vera Regina degli Scacchi fa causa a Netflix: “Una falsità devastante che degrada i miei successi”. “Nella serie, quando Beth (la protagonista) si trova in Russia, un cronista dice che “Elizabeth Harmon non è affatto una giocatrice importante. L’unica cosa inusuale di lei è il suo sesso. E anche questo non è unico in Russia. C’è Nona Gaprindashvili, ma lei è campionessa femminile di scacchi e non ha mai affrontato uomini”: affermazione falsa, ribatte Nona, che di uomini ne ha sfidati parecchi”
  • Carolina Mautone, ‘Coming Soon’, 10 Novembre 2020, La regina degli scacchi è una storia vera? Ecco a chi è ispirata la miniserie Netflix. “Sappiamo che la miniserie si basa sul romanzo del 1983 The Queen’s Gambit scritto da Walter Tevis. Morto un anno dopo la pubblicazione del romanzo, giocava a livello professionistico. Al New York Times lo scrittore aveva confidato che, da giovane, gli erano stati somministrati farmaci a causa di una cardiopatia. Anche la storia della tossicodipendenza di Beth, dunque, è autobiografica… Il sito della Federazione Internazionale degli Scacchi riporta che sono ben 37 le giocatrici ad aver ottenuto il titolo di Grande maestro internazionale”.
  • Andrea Cassini, ‘L’Ultimo Uomo’, 24 Novembre 2020, Cosa c’è di vero ne “La regina degli scacchi”, La serie Netflix tratta il mondo degli scacchi in maniera realistica, a partire dal suo problema con la disparità di genere. “Si è avvalso della consulenza di Bruce Pandolfini (coach e insegnante, che aveva già assistito Walter Tevis nella stesura del romanzo omonimo, da cui la serie è tratta) e Garri Kasparov. gli scacchi sono molto di più che semplici mosse su una scacchiera, e i consulenti hanno lavorato a lungo con gli attori per fargli assimilare il linguaggio del corpo, l’etichetta da torneo, la postura, i vari e peculiari modi di impugnare i pezzi, invitandoli a osservare i professionisti in azione e imitarne le movenze, come in una coreografia”.
  • Teresa Monaco, 5 Novembre 2020, ‘Cinematographe.it’, La regina degli scacchi si basa su una storia vera? Bobby Fischer si avvicina Beth, entrambi cresciuti nelle competizioni degli anni ’60. Fischer divenne campione di scacchi degli Stati Uniti nel 1957 all’età di 14 anni (Beth a 16 anni) e per tutti gli anni ’60 Fischer continuò a dominare, anche se conquistò il Campionato del mondo di scacchi solo nel 1972 nella storica partita con Spassky. Fischer non aveva problemi di dipendenza, condivide con la giovane regina degli scacchi altri problemi da outsider, come ad esempio il fatto di essere stato espulso dalla scuola e poi abbandonato, la relazione tesa con la madre, l’aver dovuto badare da solo a se stesso in giovane età. In tanti lo hanno descritto come una persona il cui genio non corrispondeva alle sue caratteristiche dal punto di vista sociale, risultando goffo, provocatorio, polemico e infelice. Forse affetto dalla sindrome di Asperger.
  • Marina Lanzone, ‘Il Giornale’ 3 Gennaio 2021, Chi è la (vera) Regina degli Scacchi. Ecco svelato il mistero. “Fischer era un misogino, alcuni hanno visto in Beth l’ungherese Judit Polgár, a prima ad aver fatto scacco matto a un uomo. Anche in Italia una campionessa, Marina Brunello classe 1994, diventata Campionessa italiana a soli 14 anni e Maestro Internazionale dal 2019. “Ho imparato a cinque anni – racconta al ilGiornale.it -. Era il gioco di casa. Il mio signor Shaibel è stato mio fratello”. Come Beth, crescendo, è diventata una giocatrice che ama rischiare: con il nero gioca anche lei l’apertura Siciliana”
  • Mattia Carzaniga, ‘Donna Moderna’, 1 Dicembre 2020, Chi sono le vere regine degli scacchi, «La serie non esisterebbe senza le sorelle Polgár, che hanno rivoluzionato questa disciplina: in particolare Judit che nel 1991 è diventata Grande Maestro a 15 anni». negli anni ’30 la cecoslovacca Vera Menchik diceva: “Quelli che hanno perso contro di me avevano sempre il mal di testa”. Osteggiata dai colleghi maschi, molti di loro si radunavano nei cosiddetti “Club Vera Menchik”, dedicati a coloro che lei aveva battuto
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