La leggenda dell’osteria fantasma. Romanzo noir italiano. Ebook.
La leggenda
dell’osteria fantasma
Il Boia dell’Alpe n.19
Thriller italiano
Nella residenza estiva del dottore ho trovato una tuta da apicultore con la rete davanti al viso, bianca come la neve che ricopre le montagne; è vecchia se pure in buone condizioni, dopo averla indossata riprendo il cammino verso quella parte della macchia dove ho sentito dire che si trovano le capanne. Vestita di bianco sarò meno visibile da lontano, meglio evitare i sentieri o l’attraversamento dei campi, più prudente la linea dei rovi che al primo vento si scrollano il pelo; mentre cammino mi par di avvertire nelle vicinanze un respiro affannoso, un passo pesante dietro la siepe. L’ansia m’accompagna per tutto il viaggio, provo a fermarmi un poco per distanziare l’inquietante presenza ma la montagna non segue una logica lineare, molti piani s’intersecano su più livelli dritti, storti, capovolti. E’ da incoscienti mettersi in cammino con un tempo così, del resto sono convinta che sia l’ultimo luogo in cui verrebbero a cercarmi; man mano che salgo riesco a distinguere con nitidezza la casa in pietra che m’ha dato rifugio nei giorni scorsi, la rampa di neve da cui ho potuto raggiungere la finestra rotta al primo piano, se quei criminali dovessero trovare le mie impronte sollevando lo sguardo mi riconoscerebbero nonostante l’abbigliamento, ritengo sia molto pericoloso indugiare. Il sentiero principale per la croce in vetta al monte passa davanti alle abitazioni lasciando chiare tracce lungo il cammino, ha ripreso a nevicare e le impronte verranno spazzate in poche ore, ma preferisco muovermi sui percorsi alternativi; m’inoltro quindi in un bosco orientandomi col sole ancora basso che spunta dai rami congelati, dopo un po’ finisco per immettermi nella foresta spingendomi dentro fino ai cancelli del vento, la neve s’infila dappertutto. Pazienza e sangue freddo.
Non avevo un’idea chiara di dove si trovassero le capanne quando son partita dalla casa del dottore, ricordo un vago progetto di ristrutturazione intrapreso anni prima in cui si vagheggiava d’una baracca abitata dai fantasmi, nelle vicinanze venne costruita una locanda (con fondi pubblici) assegnata poi a un’associazione di volontari che la gestiva come fosse un ristorante. Ho cercato e ricercato là intorno ma di capanne, nemmeno l’ombra, al massimo qualche villa condonata; dovrei forse guadagnare il crinale perlustrando il terreno in diagonale. Mi sono anche messa nei panni dei cacciatori di frodo, dei mulattieri che attraversavano il confine in segreto al tempo di Garibaldi per scambiare olio e sale, macinato, carbone, cocci. La maggior parte delle posizioni presenta aspetti critici, sono inutilizzabili come rifugio tanto per la criminalità organizzata quanto per un presidio operaio o una banda di cospiratori. Nel frattempo che vago sperduta con le racchette ai piedi il sole compie la consueta parabola, scendendo oltre il margine occidentale e portandosi dietro il profilo dell’Alpe senza che sia riuscita a ritrovare il sito, vedrai è solo un cumulo di sciocchezze mi dico nel cercare un riparo. Scavo un buco nella neve a ridosso d’una scarpata per ripararmi lì dentro e non disperdere il calore del corpo, come si legge nei romanzi; così rannicchiata, la testa fra le ginocchia e le mani intorno alle caviglie, mi rassegno a trascorrere una lunga notte, la più lunga della mia vita. Riesco persino a prendere sonno, mi svegliano di tanto in tanto il canto degli uccelli notturni e l’ululato dei lupi; in sogno vedo passarmi davanti le ombre dei ribelli che si rifugiarono da quelle parti durante la seconda guerra mondiale, dormirono anche loro all’aperto nel crudo inverno.
All’alba riprendo le ricerche, avverto nuovamente la presenza umana nelle vicinanze, di tanto in tanto s’ode stralunato lamento quand’ecco aprirsi davanti ai miei occhi un’ampia radura. M’accorgo d’aver trovato quello che cercavo: la buca in cui ho dormito stanotte si trova a poche decine di metri dalle tanto chiacchierate capanne, esistono davvero; il gobbo che passeggia nervoso intorno all’uscio della baracca, fumando e ragionando ad alta voce di cose che non sembrano avere un senso logico, nel vederlo sulle prime ho un balzo al cuore; va ripetendo a memoria come sempre il suo almanacco parlando agli alberi, agli uccelli, alla luna e al sole. Probabilmente è solo, ma vorrei capire com’è arrivato qui e perché. Mentre penso al modo migliore per avvicinarlo senza mettergli paura, Lupo incrocia il mio sguardo. Cammina in tondo fuori dalle capanne, indica prima il bosco, poi le casette in corteccia di castagno: ideali forse per un presepe vivente nel cortile della chiesa, ma viverci nel selvatico non l’auguro a nessuno; stanno cadendo in pezzi, marcito il legno, tetto sfondato in più punti. Escludo una permanenza umana stabile. Nel pensare queste cose, noto nell’erba dei sassi in circolo e i resti d’un fuoco recente. La montagna si prende gioco di me. (Continua a leggere)