Il successo è un participio passato.

Il successo è un participio passato. Una chimera illusoria che crea dipendenza e ossessione per il privilegio

Il successo è un participio passato

Siamo ossessionati dall’ansia per il successo, ma cos’è veramente, questo successo? Quanto possiamo considerarlo un fattore positivo, e quanto invece può rappresentare un condizionamento negativo?

Articolo di Federico Berti

Nella società contemporanea, il termine “successo” viene spesso usato per indicare un traguardo importante, un risultato positivo ottenuto in ambito personale o professionale. In realtà la parola in sé indica la constatazione di un evento avvenuto e di fatto superato, un participio passato che può imprigionare il presente.

Le condizioni che hanno generato un successo in realtà non si riproducono mai integralmente, non in modo spontaneo almeno, ma richiedono piuttosto investimenti enormi, in risorse (non solo intellettuali), quindi una condizione di rischio da parte di colui che imprende qualsiasi cosa, da una produzione materiale a un lavoro intellettuale, e si sa che quando c’è un fattore di rischio, non sempre l’investimento è ripagato dalla ricezione dell’opera impresa.

Il desiderio di riprodurre le condizioni che portarono (in passato) a un qualche successo, può generare un’ossessione insopportabile, la pressione di colui che vuol mantenere una posizione preminente replicando i risultati precedenti, evolve in frustrazione quando le circostanze mutano e ciò che era stato accolto favorevolmente in passato, non incontra più lo stesso consenso nel presente.

Successo dell’opera, non dell’individuo

Per affrancarsi emotivamente si dovrebbe distinguere tra il successo dell’opera e quello dell’individuo: quando una produzione raccoglie consenso, il merito non è mai interamente da attribuirsi al produttore, molte condizioni esterne giocano un ruolo determinante nella dinamica di quel successo: in questo senso attribuirlo a un artista, o a un intellettuale, o a un qualsiasi professionista in qualsiasi campo, può essere fuorviante.

Il “successo” di quel che noi portiamo a compimento è conseguenza di un complesso sistema di mediazione che coinvolge produttori, distributori e altri attori del mercato non solo culturale, così come il successo di un’azienda è sempre il concorso di tanti fattori, interni ed esterni all’azienda stessa. Il nostro successo non è un successo nostro.

Il successo crea dipendenza

Quando il successo diventa un obiettivo si rischia di entrare in una spirale di dipendenza dal sistema con cui lo si vuol riprodurre: coloro che, intellettuali o imprenditori, perseguano il successo ad ogni costo, si trovano costretti a replicare formule vincenti adattandosi alle esigenze di un mercato che richiede prodotti prevedibili e facilmente ‘spendibili’.

Questa dinamica impone vincoli che ostacolano l’innovazione, ci rende di fatto schiavi del desiderio di raccogliere consensi o di mantenere determinati privilegi. Gli artisti rischiano di diventare prigionieri di quel che ‘ha funzionato’, nel timore di deludere le aspettative del pubblico e degli investitori, finiscono per replicare copie di quel che hanno già prodotto in un patetico gioco al ribasso.

Il successo ‘nostro malgrado’

II solo rapporto equilibrato possibile con il successo consiste nell’accettarlo ‘a posteriori’ come un fenomeno che, una volta accaduto, sappiamo di non poter più replicare nello stesso modo, un qualcosa che non dipende esclusivamente da noi, che non possiamo prevedere e provocare consapevolmente. Il successo non va mai ricercato, il privilegio che questo comporta non va posto come un obiettivo ma riconosciuto e lasciato scorrere come l’acqua del fiume.

Questo atteggiamento permette di mantenere l’indipendenza in qualsiasi cosa noi realizziamo, non solo le opere intellettuali, affrancandoci dalla falsa gratificazione derivante dal riconoscimento esterno: accettare il successo come un evento contingente, di per sé non positivo ma al contrario, come una malevola volontà di potenza, può aiutarci a vivere meglio.

Promotori e mediatori

Fondamentale è insomma distinguere tra il successo di un’impresa e il successo del sistema che la promuove: gli investimenti le strategie di distribuzione, le leggi del mercato, possono garantire visibilità e consenso intorno a una determinata produzione, ma questo non significa che l’opera compiuta abbia un valore intrinseco, o che il suo successo rifletta necessariamente il merito di coloro che l’hanno compiuta
Nella maggior parte dei casi anzi, le nostre produzioni di maggior ‘successo’, se le osserviamo a posteriori, si rivelano di fatto quelle in cui abbiamo investito meno in ricerca personale, mentre al contrario le cose in cui abbiamo messo maggior impegno non hanno quasi mai il riscontro che desideriamo.

Il successo come chimera

In un mondo dominato dalla logica della performance e della visibilità questa consapevolezza può sembrare contro-intuitiva, ma è fondamentale per la nostra serenità interiore: il successo non appartiene a noi, ma è piuttosto un riflesso della società e delle sue esigenze, un qualcosa che è accaduto nostro malgrado in passato. Riconoscere il successo come una chimera, un’illusione pericolosa, una malevola coazione a ripetere, è il primo passo per emanciparsi dall’illusione e dall’ossessione per il privilegio: il successo è un participio passato che può imprigionare il presente.

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