Il rito del caffè. Odissea in Etiopia

Il rito del caffè

Odissea in Etiopia Cap.15

Spartaco tornò alla capanna di Aksum nel tardo pomeriggio. Quando vi entrò un piacevole odore d’incenso e altre spezie profumate lo accolse; Gudit e sua madre avevano cosparso in terra fiori ed erba fresca, le trovò intente a lavare alcuni chicchi di caffè in un bacile riccamente decorato. Nessuno parlò. La giovane indossava un abito bianco, tostò i semi puliti e mentre il fumo saliva lo soffiò rivolta all’ospite. Spento il fuoco si dette a pestarli in un mortaio per poi scaldarli in una lunga brocca dal collo allungato, che venne lasciata un poco in infusione con dello zenzero e altre spezie, infine filtrata dal tappo dello stesso contenitore in ceramica. Bevvero per tre volte. Spartaco notò che sedeva con loro un monaco anziano, cieco da entrambe gli occhi. Recava con sé un’arpa di legno con corde di budello. Iniziò a cantare qualcosa in lingua etiope, il giovane traduttore al suo fianco mormorò tra un verso e l’altro il contenuto del poema:

… Ero il più piccolo dei miei fratelli,
l’ultimo dei figli di mio padre,
volle che badassi alle sue pecore
e ne governassi gli agnelli.
Con le mie mani ho costruito un flauto
con le mie dita una cetra
per rendere omaggio al cielo
pensai tra me:
le montagne non testimoniano
le colline non annunciano
saranno gli alberi a parlare

La leggenda dell’acqua.

Salmodiava monotono lo sguardo perso nel vuoto, pizzicando le corde e dondolando leggermente la testa alla maniera dei non vedenti. Passò a raccontare un’antica leggenda sull’amore di Salomone e Makeda, la regina seguace del sole aveva sentito parlare d’un saggio regnante sulla città di Gerusalemme, andò a cercarlo. Voleva sottoporgli i suoi enigmi. Così parlò il monaco abissino, suonando sempre lo strumento; il sovrano d’Israele offrì qualsiasi omaggio avesse gradito, purché giacesse una notte con lui. La donna rifiutò. Scelse di ripartire dalla città santa senza portare nulla con sé; l’uomo insistette per condividere ancora un pranzo, nel quale servì pietanze molto saporite che lasciarono alla regina la gola riarsa, così che non prendendo sonno dovette alzarsi di notte e dissetarsi a una fontana. Sulla via del ritorno fu subito raggiunta dal re Salomone, che rivendicò la proprietà sull’acqua nel suo ventre. La poverina dovette risolversi a dormire con lui. Non l’amò. Il figlio nato da quell’unione tornò da adulto per rubare con le proprie mani l’arca dell’Alleanza, custodita ancora oggi alle porte del paradiso nei pressi del lago Tana.

Quel monaco parlava così velocemente che il novizio dovette riassumerne il racconto per sommi capi, dopo un terzo giro di caffè i presenti mangiarono frutta e cereali, poi il vecchio tornò a suonare vaticinando la fine delle guerre coloniali e l’inutile strage nei pressi di Adua, avvenuta solo un anno prima. San Giorgio aveva combattuto a fianco del popolo etiope. Spartaco non ebbe alcun bisogno di farsi tradurre quella canzone, gli parve quasi di vedere il santo cavaliere con la sua lunga lancia riflesso negli occhi del cantastorie, pianse allora coprendosi il volto con le mani. Notando questo, Aksum chiese al vecchio di lasciare la cetra. “Fermo il canto” disse. Rivolto al soldato domandò cosa l’avesse spinto ad arruolarsi nell’esercito, il disertore asciugandosi una lacrima rispose: “Non per crudeltà, non per desiderio di gloria o di ricchezze m’imbarcai, come già vi dissi. Desideravo combattere insieme a voi quei cannoni che dilaniano i corpi dei vostri cari, prodotti nelle fabbriche del mio paese. Coloro che maledicono la guerra vengono bastonati, sbattuti in galera, se non li uccidono prima a tradimento fuori dalle osterie. Non mi sentivo più sicuro nel suolo europeo. Conobbi allora un avvocato, esule in Svizzera. Essendo lui in contatto col monaco Shoà, disse che poteva procurarmi un collegamento sul posto ma per raggiungere l’Africa avrei dovuto prestare giuramento per il regio esercito e poi tentare la fuga una volta sbarcato a Massawa. Il Mar Rosso non è un oceano”. L’etiope annuì soddisfatto. L’italiano era sincero.

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Un suonatore di Beghena in Etiopia

Si alzarono in piedi, uscirono dalla capanna, danzarono nel cuore del villaggio per rendere onore alla nuova amicizia; i giovani mostrarono abilità nella scherma col fucile, nell’arrampicata, nella corsa e nel salto del toro. Spartaco partecipò con entusiasmo dimenticando per un po’ il peso che gli gravava sopra le spalle, verso l’ora del tramonto la piccola Gudit si tolse un bracciale dal polso per offrirlo allo straniero in segno di fratellanza: “Ricordati di me, che per prima ti soccorsi”. Makeda lo invitò a raccontare la propria vicenda personale affinché si potesse tramandare ai posteri quel che ne fu dei superstiti italiani dopo la disfatta di Adua. Le loro gesta erano degne d’un tributo alla memoria, poiché furono indotti a sparare sotto minaccia della loro stessa vita. Aksum notò come la schiavitù si rivolti sempre contro il padrone, “Non esistono uomini liberi in Europa, ciascuno è servo di qualcun altro. Persino l’imperatore, soggiogato dalla sua stessa diabolica potenza”. Spartaco accolse l’invito, prese la parola. (Continua)

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