Il patrimonio popolare palestinese tra folklore e folklorismo.
Cristiana Baldazzi
Il Patrimonio popolare palestinese
tra folklore e folklorismo,
in: AA.VV. Memorie condivise. Popoli, Stati e Nazioni
nel Mediterraneo e in Medio Oriente,
2013, II voll. pp. 76-93
Questo articolo di Cristiana Baldazzi analizza il ruolo del folklore nella preservazione dell’identità palestinese minacciata non solo e non tanto dalla presenza israeliana, ma come tutte le tradizioni popolari semplicemente dal nuovo che avanza. L’autrice analizza studi demologici palestinesi, dal periodo degli anni ’20 fino a quelli più recenti, focalizzandosi sulla prospettiva di Antonio Gramsci, che considerava il folklore come la “concezione del mondo e della vita” delle classi subalterne, offrendo una prospettiva critica dalla quale valutare il patrimonio culturale. Il termine più utilizzato dai popoli arabi per indicare il folklore è al-turāth al-sha‘bī, che abbraccia racconti, miti, leggende, canzoni, balli, e altro, oltre a materiali scritti come talismani e amuleti. Baldazzi prende in esame i primi studi palestinesi sul folklore degli anni ’20, con particolare attenzione al lavoro di Tawfiq Canaan e altri studiosi del suo circolo.
Canaan, un medico nato a Beyt Jala nel 1882, ha raccolto una vasta collezione di amuleti e pubblicato studi sia in tedesco che in inglese. La sua prospettiva, influenzata dagli orientalisti occidentali, voleva essere quella di preservare il folklore come una sorta di relitto di una cultura in via di estinzione. Baldazzi evidenzia la sua posizione, in parte a suo stesso parere discutibile, che il folklore palestinese fosse legato alle tradizioni bibliche, con l’obiettivo di trovare una continuità storica tra l’epoca preislamica e quella contemporanea. Un intento viziato in realtà da una visione idealizzata della realtà sociale, comune però al metodo etnografico di allora anche rispetto ad altri contesti culturali. E’ il caso di sottolineare che Canaan, nato sotto l’Impero Ottomano, per il quale combatté nella prima e nella seconda guerra mondiale, scrisse la maggior parte dei suoi articoli in lingua inglese e tedesca, e che durante il dominio coloniale britannico ricoprì la carica di primo Presidente dell’Associazione Medica Araba della Palestina fondata nel 1944, fu anche direttore di diversi ospedali nella zona di Gerusalemme prima, durante e dopo la guerra del 1948. Nel corso della sua carriera medica, scrisse vari studi sulla medicina tropicale, batteriologia, malaria, tubercolosi e condizioni sanitarie in Palestina, dando contributi significativi nel campo medico. Gli articoli da lui scritti sui reperti che aveva collezionato nel tempo costituiscono una fonte molto importante l’etnografia di allora. La sua visione era tuttavia influenzata da una posizione chiaramente nazionalistica, che gli causò problemi con l’impero britannico (dal quale fu anche arrestato nel 1939).
Fin dalle sue prime conferenze nei primi anni del Novecento, Canaan palesò la propria convinzione che non fosse possibile comprendere davvero a fondo l’Antico Testamento senza studiare il folklore palestinese attuale. Canaan si inserì nella corrente degli studi orientali europei, facendo riferimento ai lavori di Schumacher, Bauer, Guthe e Burckhardt, oltre a fonti classiche come Strabone e Giuseppe Flavio, e fonti arabe come Mujir ad-Din. Influenzato anche dagli studi dell’Antico Testamento di Gustaf Dalman, Albrecht Alt e Martin Noth, tutti loro conoscenti personali, Canaan utilizzò la Bibbia come fonte di base per confrontare le pratiche agricole passate e presenti. Non si può non tener presente che lo stesso Canaan presiedette l’Istituto Evangelico Tedesco a partire dal 1903. Fu anche membro della Scuola Americana di Ricerche Orientali e della Società Orientale della Palestina di cui fu consigliere e tesoriere. Tutto il suo lavoro di ricerca nel flolklore palestinese era animato da uno spirito anticoloniale, contro la dominazione britannica e contro il sionismo, ma non risulta che abbia espresso una posizione ugualmente critica nei confronti della presenza ottomana o egiziana prima e dopo l’impero britannico.
L’autrice sottolinea come il concetto di ‘nativism,’ introdotto da Salim Tamari, emerga nelle rappresentazioni del contadino come custode dell’identità palestinese, rappresentando l’anima incontaminata della nazione. Questo simbolismo si sviluppa in opposizione al discorso israeliano, e il contadino diventa una figura chiave nella costruzione dell’identità nazionale palestinese, specialmente in contesti in cui la rappresentazione diretta della Palestina è censurata da Israele. Si ritiene qui doveroso precisare che Tamari è nativo di Jaffa, ma la sua famiglia fu costretta a ritirarsi in Cisgiordania nel ’48 con la guerra arabo-israeliana. Studiò al Birzheit College e si laureò negli Stati Uniti. Proseguì la sua carriera accademica con una laurea magistrale in sociologia all’Università del New Hampshire e un dottorato in sociologia all’Università di Manchester, entrambe nel Regno Unito. Divenne rettore negli anni ’90 dell’Istituto di Studi sulla Palestina a Beirut, pubblicò la rivista in lingua araba Jerusalem Quarterly, ha collaborato con il programma Aga Khan per l’Architettura Islamica al MIT, sempre negli Stati Uniti, ha insegnato alle università di Berkeley, New York, Chicago, Cambridge e Venezia. Possiamo dire che rappresenta quella parte del mondo intellettuale nativo della Palestina che ha trovato nel Regno Unito e negli Stati Uniti un supporto per la sua attività di ricerca sul folklore palestinese in chiave di resistenza culturale.
Cristiana Baldazzi riflette sul ruolo del folklore palestinese nella preservazione dell’identità, specialmente di fronte alle sfide come la negazione israeliana della storia e della cultura palestinese. Dopo la formazione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e la sconfitta del 1967, il folklore palestinese è diventato un mezzo per salvaguardare l’esistenza passata e presente. Nimr Sirhān, nella prefazione alla seconda edizione dell’Enciclopedia del Folklore Palestinese, che include sia contributi arabi che occidentali, sottolinea che il folklore è uno strumento di resistenza, infondendo nuova forza nel popolo. Sirhān evidenzia la natura storica del folklore palestinese, risalente a tempi antichi, e respinge l’idea che sia solo una raccolta di pratiche magiche dei poveri. Nell’era post-anni ’70, si assiste a un passaggio verso l’autodeterminazione palestinese, con un’enfasi sulla connessione tra società, territorio e cultura locale. Il folklore ha il compito fondamentale di mantenere viva l’eredità popolare che si oppone all’occupazione, manifestandosi soprattutto nello spirito di resistenza trasmesso attraverso le canzoni popolari. In altre parole l’intellighenzia del mondo arabo, in collaborazione con quella europea, ha dato un contributo significativo alla creazione di un folklore palestinese filtrato da una visione politicamente orientata verso la prospettiva della resistenza culturale anti-israeliana. E’ evidente il conflitto di interessi in questo tipo di operazione.
Nonostante le sfide come l’industrializzazione e l’impoverimento della società rurale, la figura del fellāh (contadino) continua a simboleggiare l’anima della nazione palestinese. Il concetto di sumūd, che significa perseveranza, diventa una strategia politica per resistere all’occupazione, con il fellāh strettamente legato alla terra. Il testo esplora anche la prospettiva di Antonio Gramsci sul folklore, sottolineando il suo ruolo nel collegare gli intellettuali con i bisogni e i sentimenti del popolo. In una riflessione critica sull’uso del folklore palestinese, il testo discute come esso affronti minacce non solo dal normale passare del tempo, ma anche dall’espropriazione politica e culturale. L’autore critica i casi in cui il folklore è manipolato per ideologie nazionalistiche, stabilendo paralleli tra i tentativi palestinesi e israeliani di plasmare e controllare le rispettive narrazioni folcloristiche. La conclusione invita a una consapevolezza di queste sfide e a un approccio sfumato per preservare il folklore senza cedere a illusioni su una civiltà contadina immutabile.
Il testo cita anche il caso inverso, quello di Gurit Kadman (1897-1987) e Rivka Sturman (1903-2001) entrambe immigrate dalla Germania in Palestina negli anni ’30, e il ruolo significativo da avuto nello sviluppo della danza popolare israeliana. Nel testo, si menziona che nel 1944 furono loro stesse a crearla incorporando elementi di danze locali arabe ed ebraico-yemenite. Il loro contributo alla danza israeliana è stato influente nel definire una tradizione coreografica che si basava su elementi culturali locali e contemporanei. Un’operazione che ha suscitato anche delle controversie, poiché l’idea di una danza popolare autentica è tradizionalmente associata a espressioni che si sviluppano organicamente all’interno di una comunità nel corso del tempo. La creazione artificiale di una tradizione folkloristica è stata criticata da alcuni studiosi e attivisti culturali come espressione di una prospettiva nazionalistica, o nazional-popolare.
In conclusione, il testo di Cristiana Baldazzi pone in evidenza come il folklore palestinese, ma anche a suo modo quello israeliano, siano stati entrambe influenzati da una prospettiva nazionalista. Quella stessa prospettiva che fin dalle prime migrazioni sioniste si è manifestata attraverso un atteggiamento di rivendicazione indipendentista da ambo le parti. In modo particolare, non si può non segnalare il supporto che gli studi sul folklore palestinese hanno sempre ricevuto da parte britannica, germanica, statunitense, vale a dire da parte dei vecchi dominatori, e di come gli orientalisti che se ne sono occupati abbiano privilegiato una linea di continuità fra ‘nativismo’ palestinese e mondo arabo. L’impressione che si ha di fronte a simili dinamiche, è che le grandi potenze del mondo capitalista occidentale abbiano contribuito a creare quello spirito di resistenza culturale su base etnica e nazionalista sia da parte del popolo palestinese, che da parte israeliana, contribuendo in modo più o meno consapevole a compromettere la convivenza pacifica nell’antica terra di Canaan. Fino a quando non si metteranno da parte queste visioni distorte della realtà e queste autentiche manipolazioni del concetto stesso di identitarismo, abbracciando una nuova prospettiva multiculturale e internazionalistca, non si porrà mai fine al conflitto.
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