Dal gioco rituale ai replicanti del board game
Una rubrica sul gioco da tavolo e la creatività collegata alla produzione del game studio Moonlight Checkers, tanti giochi in un solo box set che si può acquistare soltanto dal suo produttore americano. L’ho disegnato e realizzato nell’ambito delle attività dell’associazione ” E bene venga maggio” di Monghidoro (Bologna). Puoi ordinare qui la tua copia del gioco da tavolo
Il gioco dei giochi
DAL GIOCO RITUALE
AI REPLICANTI DEL BOARD GAME
GAME DESIGN TUTORIAL
Articolo di Federico Berti
Il gioco da tavolo della Dama Bianca ha rappresentato per me e alcune persone coinvolte nella sua realizzazione, l’elaborazione di un lutto. In questo articolo spiegherò il profondo legame tra dolore e gioco ma soprattutto, il perché di questa operazione. A cosa è servito.
DALLA CABALA AL GIOCO
Di mestiere non sono un game designer, ho suonato per quindici anni in parata come uomo orchestra componendo poesie e canzoni; le pubblicavo in fogli volanti e piccoli opuscoli tascabili; quando il pubblico iniziò a chiedermi se avevo i numeri del lotto sulle prime fu motivo d’imbarazzo, poi da una ricerca svolta all’Archiginnasio di Bologna in collaborazione con l’associazione ‘E bene venga maggio’ e l’etnomusicologa Placida Staro, ho scoperto che quella richiesta non dovevo interpretarla come un invito alla ciarlataneria, i cantastorie del secolo scorso avevano sempre pubblicato e distribuito materiali inerenti la cabala dei sogni e il gioco del lotto.
Decisi allora di produrre un poemetto illustrato a puntate, Il Burdigone d’Oro in formato cartolina, dove al termine di ciascun episodio ricavavo cinque numeri dai simboli del testo letterario e distribuivo il foglio volante in cambio d’una libera offerta, alla diciottesima puntata mi ritrovai una serie completa di 90 numeri ispirata al racconto, che prendeva le mosse dall’Asino d’Oro di Apuleio. A quel punto mi venne l’idea di allegare alla collezione delle cartoline e riprodurre sul retro dell’opuscolo che le raccoglieva, un tabellone da gioco dell’oca, dove ogni casa corrispondeva a uno dei simboli ricavati dal racconto. Era nato il primo nucleo della Dama Bianca.
‘GIOCARCI SOPRA’
Protagonista del poemetto è l’anima d’un defunto per morte violenta che non riesce a lasciare questo mondo ma riappare ai viandanti presso le sorgenti d’acqua; il testo è ambientato idealmente in alcune località nelle vicinanze di Siena consacrate alla figura misteriosa di Pia dei Tolomei, sulle vie delle migrazioni stagionali da Monghidoro verso la Maremma toscana in cui m’ero inoltrato per visitare i luoghi della storia messa in scena con la Compagnia del Maggio di Monghidoro.
Un anno dopo ricavai dalla sua prima stesura il Ponte della Pia, canta per il maggio drammatico in onore di Riccardo Venier, fraterno amico ucciso a colpi di pistola all’università di Bologna nel 2005, figlio della Staro. Nel gioco avevo ricostruito per simboli una simulazione del percorso fatto dallo spirito della povera Pia nel giungere alla fine della sua tormentata storia, trovando finalmente la pace: un modo per esorcizzare la paura e il dolore, trasformandolo in azione positiva, ‘giocandoci sopra’. Il progetto di ricerca ha ricevuto un notevole impulso da un laboratorio didattico tenuto alle scuole di Pianoro nel bolognese in collaborazione con la stessa Staro, dal titolo Aldilà delle parole, nel quale s’insegnava a bambini di età compresa fra 7-10 anni l’improvvisazione in rime di endecasillabi attraverso il gioco.
IL TABELLONE CIRCOLARE
Volendo costruire un game studio componibile sul quale adattare di volta in volta nuovi giochi didattici era necessario che il tabellone prendesse una forma geometrica possibilmente circolare, studiai quindi una struttura solida a tre dimensioni che potesse contenere i 90 numeri del lotto e l’unica organizzazione possibile da un punto di vista funzionale era disporre i numeri su cinque anelli concentrici da 18 case ciascuno, forme e proporzioni diverse non sarebbero state altrimenti compatibili con la pratica: un numero maggiore o minore di anelli avrebbe infatti comportato una sproporzione ingiustificata fra case esterne e interne alterandone la leggibilità.
Dico queste cose perché sia chiaro che la costruzione dell’ambiente di gioco non è frutto di una scelta formale o estetica, ma conseguenza della funzione che quel tabellone avrebbe dovuto assolvere. Disegnato l’impianto mi rivolsi dunque a Massimiliano Stefanini di San Benedetto Val di Sambro e gli commissionai un calco in gesso per quel primo prototipo, prodotto in sole tre copie. Due di quelle copie sono servite negli anni successivi per il game test con i bambini di Monghidoro, Ca’ di Fiore e la Piccola Scuola di Musica e Danza “Riccardo Venier”, sono state letteralmente consumate dal gioco e non esistono più. Una sola copia è rimasta in casa della madre di Riccardo.
L’ALBERO DEL MONDO
Proseguendo nelle ricerche sulla cabala e la teoria dei giochi, mi trovai a raccogliere la foto d’un reperto archeologico, il Mehen egizio riprodotto all’inizio di questo articolo, della cui esistenza non ero mai stato al corrente; mi accorsi allora che la forma iniziale data al mio tabellone si ritrovava nei petroglifi 6000 anni prima dell’era volgare, questa cosa mi lasciò alquanto sorpreso specialmente quando imparai che questi primi giochi da tavolo avevano la stessa funzione rituale servita a me per esorcizzare il dolore causato dalla perdita di un amico.
Le pedine del Mehen rappresentavano infatti per gli antichi le anime dei defunti che dovevano percorrere il corpo del serpente, il quale veniva considerato simbolo dell’universo, l’albero del mondo, il collegamento fra cielo e terra. In pratica, avevo involontariamente ricostruito un procedimento che risaliva a 9000 anni prima. La spiegazione di tanto significativa coincidenza fu da me attribuita alle lunghe conversazioni con la dottoressa Staro e il marito Massimo Zacchi sul tema dell’immaginario simbolico, l’arte combinatoria e la storia antica.
Quel simbolo circolare ad anelli concentrici con un meridiano centrale compariva anche in un’opera filosofica, il Crizia di Platone, veniva attribuito alla mitica città di Atlantide e riprodotto in varie località del mondo nonché nell’architettura di molte chiese cristiane. Avevo messo le mani in qualcosa che era più grande di me e dovevo quindi approfondire gli studi nella cabala antica per poter rendere conto di tutte le valenze che il progetto di ricerca apriva.
“E, iniziando dal mare, essi costruirono un canale di trecento piedi di grandezza, cento piedi di profondità e cinquanta stadi di lunghezza. Inoltre essi divisero, in corrispondenza dei ponti, le strisce di terra che erano interposte alle strisce di mare lasciando lo spazio necessario perché una singola trireme potesse passare da una zona all’altra, quindi ricoprirono i canali così da creare una strada sotterranea per le navi, in quanto i moli erano innalzati considerevolmente al di sopra del livello dell’acqua”. (Platone, Crizia)
L’ARTE DELLA MEMORIA
In seguito venni a sapere che lo stesso Riccardo era stato un giovanissimo inventore di giochi, aveva prodotto un mazzo di carte e un gioco dell’oca del quale non ho mai potuto ricostruire il funzionamento, in altre parole realizzando il tabellone della Dama BIanca avevo proseguito una strada lasciata aperta da lui, senza rendermene conto; questo il motivo per cui negli anni successivi quel gioco divenne per me quasi un’ossessione: la scoperta dell’algoritmo mi aveva portato sulle tracce del rapporto fra cabala e arte della memoria, di cui i cantastorie italiani erano stati un tramite per almeno cinque secoli.
In sostanza il tabellone si prestava a un’applicazione ‘operativa’ degli insegnamenti che avevo trovato nei testi di Giordano Bruno, Cornelio Agrippa, Pico della Mirandola, Raimondo Lullo, Dante Alighieri. Iniziai dunque a usare le ruote della memoria nell’ambito dei laboratori creativi praticando il gioco in forma sociale e continuai a usarlo nella mia attività di poeta, illustratore e romanziere in forma individuale.
Parallelamente compilai una tavola periodica dei simboli ricorrenti nei sogni basandomi su alcune cabale del lotto pubblicate in differenti regioni d’Italia a partire dal XVIII secolo; la differenza tra i cataloghi più recenti, che partivano dalle parole per arrivare ai numeri da giocare, e quelli figurati che sviluppavano un percorso inverso, partivano cioè dai numeri per arrivare alle immagini, è che solo questi ultimi consentono di generare un contenuto simbolico a partire dalla casuale pesca del numero, mentre i dizionari non permettono di andare oltre l’atteggiamento superstizioso interrogando un sogno per averne i numeri ‘vincenti’.
PRECEDENTI LETTERARI
Questa parte del lavoro si riallacciava agli studi sulla narrazione che avevo intrapreso fin dall’università, ispirandomi alla Grammatica della fantasia di Gianni Rodari, all’uso dei tarocchi nel Castello dei destini incrociati di Italo Calvino, alla partita a scacchi da cui è stato ricavato il romanzo Dentro lo specchio di Lewis Carrol, ad altre opere sul tema dell’arte combinatoria come Il gioco delle perle di vetro di Herman Hesse e naturalmente i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello.
A quel punto l’algoritmo iniziale è esploso in un caleidoscopico grappolo di formule differenti, il progetto di ricerca ha preso molte direzioni diverse ed è stato difficile non smarrirsi nel labirinto che quelle molteplici declinazioni stavano costruendo. Una sola certezza, ricavata proprio dagli insegnamenti della Staro, mi garantiva che quella fosse la sola via percorribile: un gioco nel cassetto non serve a nessuno, se vuoi farlo vivere il solo modo è giocarlo nella vita reale, lasciando che gli stessi giocatori diventino parte della continua rielaborazione producendo a loro volta nuove varianti, nuove declinazioni, adattando l’algoritmo agli obiettivi della didattica e alle situazioni in cui viene utilizzato: non si può evitare che un giocatore moderno prenda spunto dai riferimenti che la modernità gli offre.
IMPARARE E’ RICORDARE
Nel fare questo ho portato a conseguenze estreme la teoria dei giochi dimostrando che non esistono algoritmi ‘nuovi’ ma solo processi mentali da cui di volta in volta ricaviamo strumenti cognitivi diversi, che permettono di aggregare tra loro le idee semplici formando ragionamenti complessi: i processi cognitivi sono quelli adottati nei millenni dall’umanità per trasmettere il sapere, non siamo noi a inventarli individualmente ma vengono elaborati nel tempo da intere civiltà, li possiamo soltanto formalizzare.
Servono a espandere, potenziare le nostre facoltà di apprendimento, l’elasticità della mente: sono giochi di cabala, termine derivato dall’ebraico Qbl, letteralmente ‘ricevere la tradizione’. Più precisamente, imparare ad imparare. Se partiamo da questo presupposto, la cosiddetta meccanica di gioco ovvero l’algoritmo matematico sul quale esso viene strutturato, dev’essere riempita ogni volta abbinandovi un contenuto diverso per poterne ricavare un’applicazione pratica: le più antiche forme di board game ritrovate dagli archeologi e commentate dagli studiosi, sono astratte e servivano al potenziamento della memoria. Gli egizi non giocavano a Risiko.
DIVINAZIONE E MEMORIA CREATIVA
In altre parole al gioco da tavolo si attribuiva anticamente un significato rituale e un ruolo specifico nell’apprendimento, per riempirlo di contenuto si doveva naturalmente assegnare alle componenti ovvero pedine, astragali, tessere, semi, un valore simbolico ogni volta diverso, passando così dalla vita all’algoritmo e ritorno: un esempio molto significativo di questa dinamica è in un lungo sermone attribuito a papa Innocenzo III, nel quale il pontefice parte dai pezzi degli scacchi e dalle case del tavolo da gioco, per descrivere la società del suo tempo.
Il problema è che al giorno d’oggi questo lavoro sul sistema simbolico viene usato per trasmettere i valori di una società competitiva, mercantilistica e individualista, con risultati devastanti per la cultura e l’educazione. Prendiamo ad esempio il classico gioco dell’oca, manteniamo inalterata la meccanica ma sostituiamo i contenuti cambiando il corpo del serpente incontrato nel Mehen, raffiguriamolo non più come l’albero del mondo ma come una città, attribuiamo a ogni giocatore la proprietà d’una o più case e la possibilità di aggiudicarsene delle altre, assegnamo al punteggio un valore in denaro, sostituiamo gli accidenti con un mazzo di carte che produca varianti sul percorso di base ed ecco un classico del gioco da tavolo nel XX secolo, il Monopoli.
LA CLONAZIONE DELLE VARIANTI
Pur mantenendo quasi inalterata la meccanica di base comune a molti altri giochi nel suo genere, il contenuto didattico ne risulta profondamente modificato: non più l’anima di un defunto che cerca la via per l’oltretomba, ma un’educazione al vendere e comprare per aggiudicarsi il monopolio d’un mercato. A questo punto non rimane che replicare all’infinito le varianti su questo gioco madre per ottenere le innumerevoli clonazioni disponibili negli ormai dilaganti empire building games.
Questo l’insegnamento a cui perviene il prodotto, il tuo ruolo nel mondo è conquistarlo se non vuoi esserne schiacciato: possiamo ripetere il ragionamento ricavando per esempio il Risiko da una combinazione tra i mankala africani e le varianti ottocentesche sul gioco degli scacchi, per comprendere meglio il consolidarsi del war game e dello stesso gioco di ruolo a cui viene solitamente ricollegato. Possiamo ricavare il Tetris dal classico Forza 4 e quest’ultimo dal Filetto sul retro della scacchiera e così via, mostrando che tutti i giochi del mondo sono solo varianti di pochi algoritmi fondamentali, combinati fra loro in modo sempre diverso e riempiti d’un contenuto funzionale alla formazione mentale che si vuol dare al giocatore, ovvero un addestramento del pensiero.
CONCLUSIONI
E’ a questo che gli esperimenti hanno portato, la domanda ora è: quali conclusioni? A cosa serve? Forse per ricavare una formula archetipica del board game simile alla lingua perfetta di cui parlava Umberto Eco? Forse uno strumento per produrre storie combinando tra loro casualmente le parti d’una stessa ruota? O magari un sistema per replicare all’infinito gli algoritmi mettendo in piedi una fabbrica di giochi da tavolo?
La risposta è nulla di tutto ciò, l’obiettivo della ricerca era di ritornare al perché si gioca ovvero, alla cognizione del dolore da cui eravamo partiti: giochiamo per esorcizzare la paura, per elaborare la conoscenza, per migliorare noi stessi e crescere insieme affrontando le difficoltà. Un addestramento alla vita, questo il senso di ogni gioco astratto: tradurre nell’algoritmo le situazioni in cui veniamo a trovarci ogni giorno usandolo per ricavarne molteplici futuri possibili, in modo simile al cartomante che legge nelle combinazioni dei tarocchi una varietà di alternative applicate a una domanda di partenza, nella consapevolezza che non dobbiamo commettere l’errore di sostituire la realtà alla sua rappresentazione: le carte non dicono nulla, siamo noi a usarle per produrre significato.
IDEALISMO E MIMESI CREATIVA
A questo serve la Dama Bianca, l’edizione americana è solo l’ultima fase intermedia del processo a cui torno finalmente con la versione artigianale in legno, che riprende l’originaria struttura tridimensionale, la forma circolare del tabellone, l’oganizzazione delle ruote, la suddivisione simbolica in 90 case e l’abbinamento alla cabala dei sogni: essendo un astratto, consente di riprodurvi sopra quasi tutti gli algoritmi dei giochi a noi conosciuti ma non al solo scopo di moltiplicarne le varianti, bensì per intrappolarvi dentro la nostra vita reale, risolvendone i conflitti come si può risolvere un rompicapo matematico.
Il gioco è uno specchio nel quale riconoscere noi stessi, la nostra esistenza su questo mondo, elaborare il nostro dolore, trovare una strada per migliorarci. Concludo tornando ancora una volta a una lezione della Staro: nel parlare del sistema musicale ‘temperato’ e del motivo per cui le frequenze dello spettro sonoro sono state suddivise nella cultura musicale europea in sette note fondamentali, la madre di Riccardo è ricorsa al paragone con l’astrologia, al numero dei pianeti, spiegando che da sempre la mimesi creativa dell’arte prende a modello l’armonia del cosmo, ad essa tende.
Nel ripensare a quella conferenza, non ho potuto fare a meno di applicare il paragone alla poesia dantesca, nella quale si ottiene lo stesso risultato conformando l’armonia delle parole a quella dei numeri, ma applicandola alla vita reale: dalla vita al gioco, dal gioco alla vita. Una volta organizzata la forma mentis, il resto non è che applicazione, esercizio, creatività.