I vagabondi del Tantra. Memorie d’un saltimbanco, Frammento XXXI
I vagabondi
del Tantra
Tratto da:
Federico Berti
“Memorie d’un
saltimbanco”
Framm. XXXI
Commento musicale
G. Birkin, S. Gainsburg, “Je t’aime”
FAI PARTIRE LA MUSICA
Se fossi disonesto andrei avanti così per altre ottocento pagine come han fatto in tanti prima di me, fossi dipendente da qualche editore di terz’ordine metterei in fila ricordi autoreferenziali di astronomiche scopate ossessivo compulsive, prontuari per giovani aspiranti trombeur, ma sono abbastanza convinto che finirei per annoiarmi e annoiare, anche perché ormai è noto: son cose di cui chi più ne parla, meno le fa. L’assioma svelato, l’aleph dell’orgasmo multilivello. Bucowsky fu il primo a prendersi gioco del suo stesso mito, tenendo a specificare che le sue compagne d’avventura non erano state mai tanto belle e ben vestite come quelle attricette che aveva visto sul palcoscenico parlare di lui. In tanti hanno perso tempo a infilarle una dietro l’altra come grani d’un tantrico rosario, perché si sa che a parlare di figa si vende a sbanco. Per fortuna ho altre urgenze nella vita. Non che fossimo scolaretti in colonia o santoni in ritiro noialtri, della morale bacchettona mi fregava onestamente poco allora come oggi: ben venga il caos e l’arte combinatoria della fornicazione, quando ne hai fatto una regola di vita; ma parlarne a posteriori sarebbe una noia mortale, dovessi disegnare le carte con i sessantaquattro esagrammi di Kajurajo e le varianti Luneburg delle reciproche aperture di cosce, sbrodolamento laudatorio nel nome d’un testosterone selvaggio e sostanzialmente machista, cioè reazionario, non farebbe che sminuire l’importanza di ciascun singolo scatto dei reni o alzata di culo. Perché quella roba là ha un senso per me e per chi c’era lì con me in quel momento. Né servirebbe indugiare su paesaggi da sogno, boschi, foreste, scogliere, panchine di giardini pubblici, cantieri, rovine abbandonate, dormitori di centro sociale, materassi, coperte buttate in terra chissà dove, acrobazie alla sbarra, staffette di pubblico, serrande abbassate, di tutto questo carosello accelerato come la pellicola d’un film muto non viene in mente a me qui e ora che una sola immagine desolante, patetica, quasi dolorosa.
Da un bianco alone sbiadito vedo emergere il profilo d’una periferia bolognese, dove passeggio tenendomi per mano con la stessa donna da cui sono scappato il giorno in cui mi ha preso Caronte a bordo del suo battello ubriaco. Vesto ancora gli stessi panni della boheme, ma per ragioni che ancora non riesco a spiegarmi sto cercando di rientrare nel mondo dei vivi dalla porta di servizio, quando vedo un’automobile inchiodare a poche decine di metri da noi lasciando strisce di copertone sull’asfalto e fischiandomi nell’orecchio. Eccola, è ferma proprio lì, accostata al marciapiede. Non un portone una pensilina un semaforo una striscia pedonale nelle immediate vicinanze, nulla che possa configurarsi come motivo di attrattiva, nessuna ragione particolare per impantanarsi a quel modo nel bitume di un’anonimo quartiere fuori porta. Si spalanca una portiera e dal malconcio veicolo vedo schizzar fuori un’ombra inizialmente nebulosa, poi ne scorgo man mano i tratti e quando apre bocca per parlare, ho un sussulto: sta chiamando il mio nome. Ci metto un po’a riconoscerla, sulle prime lei stessa pare posseduta dal sacro fuoco d’una gioia meravigliosamente irragionevole, di quelle che non stai lì a chiederti il perché. Quell’inno ad Ananke di cui solo a vent’anni sei capace. L’ombra muove nella mia direzione a passi che potrebbero scavalcare palazzi interi se ne trovasse nel breve tratto di squallore urbano che ci separa, poi spalanca gli occhi e rallenta, fino a fermarsi del tutto. In quel momento è come se una mano invisibile mi afferrasse per il bavero, sollevandomi al di sopra delle nuvole, per scaraventarmi ottocento chilometri e un paio di mesi distante, ricordo all’improvviso dove, come, quando e perché. E’ solo un lampo, non dura che un tic nervoso alla palpebra, subito controllato; siamo entrambi consapevoli del non senso che in quel breve istante unisce e divide le nostre vite, ma il di lei sguardo fulminato dalla saetta d’un dio inopportuno fatico a dimenticarlo pur venticinque anni più tardi. No, non racconterò quel che tutti hanno già svenduto per decenni al botteghino letterario, ma quello che forse accadde ai pochi sopravvissuti, il seguito di cui nessuno si fa testimone perché non sono ricordi spendibili. E’ l’altra metà della luna che vorrei cantare, quel giorno in cui ti crescono le orecchie, la coda, il pelo e dopo aver navigato le tempeste, cavalcato i temporali, governato i flutti e pisciato contro le colonne d’Ercole, ti ritrovi d’un tratto a ragliare come un asino lasciandoti dietro montagne di merda a ogni passo e a quel punto non sai più come comportarti; perché indietro non puoi tornare, ma avanti a te hai soltanto una stalla fetida e il morso nei denti. Andiamo con ordine.