Gli studi sul sonetto. Poetica normativa e poetica descrittiva. Note intorno a un problema di critica letteraria

Tratto da
Federico Berti,

Trilussa
contro Maciste

Sonetti sbajati
a la romanesca

La satira politica senza volto da Pasquino al Belli
Polimorfismo del sonetto dalle origini ai giorni nostri
Gli studi sul sonetto. Poetica normativa e poetica descrittiva.

Elizaveta Illarionova distingue negli studi sul sonetto due tensioni opposte, da un lato le poetiche normative, ovvero quelle che impartiscono modelli, dall’altra le poetiche e storie descrittive, vale a dire quelle riflettono sulla varietà delle forme adottate. Com’è o come dovrebbe essere, questi due atteggiamenti rispetto alla critica letteraria hanno seguito una curva che dal Duecento a oggi si può osservare con mirabile evidenza, da una prima fase in cui il sonetto si considerava un tipo di poesia ‘minore’ le cui varianti non venivano distinte in alcun modo tra loro, a una seconda fase di rigorismo formale tipica del neoclassicismo barocco, per evolvere poi nell’avanguardie del Novecento con le sue deflagrazioni versoliberiste. Come abbiamo visto parlando del polimorfismo insito nella natura stessa del sonetto, lo sperimentalismo formale si dava per scontato nella poetica del ‘300. Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia parla del sonetto come di una pratica minore, bassa, adatta a qualche verso d’occasione, inadeguata a trattare temi sublimi, in almeno due casi arriva persino a confonderlo con la forma canzone. La situazione si ribalterà solo cent’anni più tardi, in base a quel principio ricordato da M.C. Calboni secondo cui:


Le forme metriche sono strutture che, pur conservando lo stesso nome e alcune fra le caratteristiche più tipiche, si evolvono attraverso le epoche storiche secondo gli ambienti culturali e geografici che attraversano.

M.C. Camboni, Il sonetto delle origini e le «Glosse metriche» di Francesco da Barberino, in “Studi di filologia italiana”,n.66 (2008), p. 34.

La prima codifica formale del sonetto non si trova affatto in Giacomo da Lentini, come la leggenda sull’invenzione del sonetto continua a riportare, ma in Francesco da Barberino contemporaneo di Dante che si limita a marcarne la suddivisione in due gruppi il primo dei quali composto di quattro elementi, a loro volta composti da ‘almeno’ due versi cui talvolta ne vengono aggiunti altri senza che per questo la forma debba considerarsi stravolta, senza alcun riferimento allo schema rimico; in altre parole il sonetto e quelle che successivamente verranno indicate come le sue varianti, costituivano secondo l’ambiente letterario di Dante e del Barberino, uno stesso genere, una stessa forma riconosciuta e accettata come tale, quello che noi chiamiamo sonetto rinterzato, o minore, o , allora si chiamava semplicemente ‘sonetto’.

La svolta normativa si verifica con la Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis di Antonio da Tempo, pubblicata per la prima volta nel 1332 ma resa popolare dal Sommacampagna nel suo Trattato e arte de li rithimi volgari solo mezzo secolo più tardi, verso la fine del Trecento, con l’affermazione del petrarchismo. E’ solo a partire da allora che si viene a distinguere nella critica letteraria una forma principale del sonetto da quelle passate in rassegna come minori o ‘varianti’. Il filone normativo prosegue con le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, poi nel 1700 la Bellezza della volgar poesia di Mario Crescimbeni in cui si viene a parlare più esplicitamente di ‘paradigma’ letterario, contribuendo alla sua cristallizzazione; la poetica normativa tornerà alla ribalta con D’Annunzio e altri, ma possiamo dire che a partire dal secolo romantico questo atteggiamento inizia a mostrare tutta la sua fragilità e le sue contraddizioni, in otto secoli di storia del sonetto il successo della predominante normativa appartiene a un periodo collocabile tra la metà del ‘300 e la fine del ‘700, vale a dire poco più di quattrocento anni.

La fine del XVIII secolo è segnata dalla grande Storia della letteratura italiana dell’abate Gerolamo Tiraboschi, a partire da quel momento si tornerà a riflettere non solo sulle origini di questa forma dalla pratica musicale e dalla poesia dei trovatori provenzali, ma sull’ipotesi della sua origine popolare, ovvero l’indagine su quella nebulosa che precede la codifica formale: in quegli anni si osserveranno le molte convergenze con lo strambotto siciliano, dei ritornelli cantati, sui frammenti di poesia cortese ritrovati nei testi delle serenate o negli stornelli da osteria, seppure formulando ipotesi non sempre condivisibili. L’ipotesi dell’origine musicale era già stata del resto introdotta nella Poetica di Gian Giorgio Trissino verso la metà del ‘500 postulando l’equivalenza tra sonetto e stanza di canzone, ribadita in quegli stessi anni nel trattato Dell’arte poetica di Girolamo Muzio. Alla fine del ‘600 Francesco Redi nelle sue Annotazioni al ditirambo. Bacco in Toscana aveva insistito sull’etimologia del nome sonetto dal provenzale ‘sonet’ e mostrato come si era modificata progressivamente la forma della canzone a partire dalla pratica dei trovatori. La riflessione romantica sull’origine popolare del sonetto porta la firma di autori come Tommaseo, D’Ancona e più avanti il tedesco Wilhelm Theodor Elwert.

La letteratura del Novecento deve confrontarsi con le nuove suggestioni, le spinte eversive del decadentismo prima, del futurismo e dell’ermetismo poi, constatando quel malessere culturale che porterà alla deformazione, all’esasperazione dello sperimentalismo e alle avanguardie letterarie. Verso la metà del secolo, nel saggio discusso e controverso di Claudio Marazzini, Revisione ed eversione metrica. Appunti sul sonetto nel Novecento si afferma la crisi e la «progressiva devitalizzazione del sonetto», quasi una sua agonia di cui seguire i «sussulti», evidenziando una linea ‘dannunziana’, rispettosa della scansione metrico-retorica canonica, una linea ‘pascoliana’ frammentata da paratassi e enjambements, un «sonetto-antisonetto» polemico in Dino Campana, un sonetto d’avanguardia in Gatto, Bertolucci, Fortini, Bassani, Caproni. J. Schaeffer si sofferma a lungo sulle varianti che come sappiamo investono sia il numero dei versi, sia l’organizzazione delle strofe, sia lo schema rimico, sia il problema semantico: l’illusione della regolarità retorica e formale viene messa in discussione osservando che né prima, né dopo l’epoca del classicismo, la forma del sonetto ha mai rispettato realmente queste indicazioni.

La fine del XX secolo è segnata dallo studio di Natascia Tonelli che attribuisce la vitalità di questa forma proprio alle continue sperimentazioni sulla sua struttura, quelle stesse ‘varianti’ che le poetiche normative mettevano in secondo piano. Il sonetto novecentesco non risponde solo a un intento di recupero ‘archeologico’ adatto alla vena parodistica, ma una ricerca orientata al recupero della poliedricità delle sue forme originarie. Qui viene a collocare quello che Beltrami chiama il ‘problema’ del sonetto: è per sua stessa natura troppo versatile, troppo duttile, nemmeno l’imitazione dei modelli impartiti dalle poetiche normative ha saputo ridurlo all’uniformità. Come osserva Todorov, il sonetto non è definito solo dai trattati di metrica, ma anche da testi ritenuti esemplari e proprio qui sta il punto: in periodi storici diversi, i sonetti presi a modello sono stati anch’essi molto diversi tra loro. Petrarca agisce come modello nel Quattrocento e nel Cinquecento, ma successivamente prevalgono altri autori da imitare: ad esempio, Marino e Tasso nel Seicento, Foscolo all’inizio dell’Ottocento e così via, fino alle deflagrazioni formali degli ultimi cent’anni.


Credo che la riconoscibilità nella variazione, la pluralità morfologica siano proprio espressione di un momento di particolare vitalità di una forma, di un suo porsi in modo tanto immanente al fare poetico da garantire la propria identità a fronte di o grazie ad ogni sperimentazione

Cit. in Elizaveta Illarionova, Gli sviluppi storici della forma sonetto in Italia e in Russia e il verso libero novecentesco: una intersezione di paradigmi poetici

Detto questo, a noi interessa in modo particolare l’incidenza delle varianti sullo schema rimico, quello che il fanatismo di taluni sembra voler considerare ‘intoccabile’. In realtà il poeta fiorentino Andrea Monte adotta già nel Duecento rime differenti fra la prima e la seconda quartina nel primo blocco in Conosco bene il reo passo ove sono, in tutto il Trecento lo sperimentalismo linguistico è del resto addirittura esasperato, tanto da richiedere l’intervento normativo di Antonio da Tempo. Sappiamo che la traduzione di Petrarca in inglese ha stravolto non soltanto l’aspetto formale, ma anche la semantica e la retorica del componimento originario, William Shakespeare non si farà scrupolo di modificare anche lo schema rimico riprendendo quel CDCD nella seconda quartina di cui si riapproprierà in seguito Paolo Rolli in Italia un secolo più tardi, nella sua personale elaborazione dell’endecasillabo ‘catulliano’ con l’accento sulla quarta sillaba. Nei sonetti di Charles Baudelaire la varianza rimica fra prima e seconda quartina è ricorrente, così la ritroviamo nei poeti crepuscolari, nell’ermetismo di Carlo Batocchi, nella poesia di Edoardo Sanguineti, Eugenio Montale. Secondo Guglielmo Aprile l’attacco al rigore del formalismo non si limita alla provocazione del verso libero, ma viene ad affinarsi proprio nella ripresa delle sue forme più ordinarie e nella loro rielaborazione in strutture compositive sempre nuove.


Il sonetto novecentesco ha perso l’obbligo dell’endecasillabo e delle rime; può mutuare la struttura del sonetto elisabettiano, o non rispettare l’ordine usuale delle due quartine seguite da due terzine, o addirittura non mostrare alcun tipo di ordine (nel caso di testi scritti in un’unica strofa, senza stacchi tipografici).

Elizaveta Illarionova, Gli sviluppi storici della forma sonetto in Italia e in Russia e il verso libero novecentesco: una intersezione di paradigmi poetici

Tonelli parla esplicitamente di una ipostasi sonettistica, ovvero propone di riformulare la definizione della forma sonetto in modo tale da potervi inglobare tutti gli esperimenti e variati elaborante in ogni epoca storica, dal Duecento in poi. Roggia arriva a sostenere che non sia possibile definire un canone rigido e propone piuttosto un elenco di cinque tratti formali pertinenti ma non prescrittivi: numero di versi fissato a 14 con la possibilità di aggiunte, inserzioni, code, un marcatore della discontinuità a evidenziare i due blocchi, dopo l’ottavo verso ed eventualmente dopo il quarto o l’undicesimo, rapporti fonici differenti fra il primo e il secondo blocco, un titolo metrico non necessariamente endecasillabo. Per alcuni testi novecenteschi, le regole si riducono in realtà ai quattordici versi e al titolo metrico.

All’alba del nuovo millennio la parabola normativa e quella descrittiva sembrano aprirsi a una nuova nebulosa in formazione, in cui l’opposizione tra le forme ipercodificate del periodo neoclassico s’incontrano con l’eversione ‘versoliberista’ dando luogo a un originale sincretismo. In questa nuova fase non c’è posto per il fanatismo rigorista né per le crociate avanguardiste, ma è venuto il momento di affrontare il problema più grande comune a entrambe le forme, quello dell’immenso vuoto semantico in un’epoca in cui la parola è ovunque e in nessun luogo, l’arte della memoria azzerata e il flusso temporale ridotto a un’interminabile, acritico presente.

Tratto da F. Berti,
Trilussa contro Maciste
Sonetti sbajati alla romanesca

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