Giuseppe Ceri, L’ombelico di Venere
L’ombelico di Venere
Poesia di Giuseppe Ceri, Sec XIX.
La poesia di Giuseppe Ceri si riferisce a un episodio della Secchia Rapita di Giuseppe Tassoni, un poema del XVII secolo nel quale si menziona la notte d’amore fra Venere, Marte e Bacco, ma non nomina il tortellino. La poesia del Ceri è una parodia del poema seicentesco, con la quale il poeta cerca un divertente compromesso tra l’origine bolognese e modenese del tortellino collocandone la nascita a Castelfranco, dove un tempo si trovava la dogana che separava le due città. Per saperne di più leggi questo articolo
“Quando i Petroni contro i Geminiani
Arser di fiero sdegno
Per la rapita vil secchia di legno:
E senza indugio armati
Accorsero di Modena alle porte
Minacciando mine e stragi e morte
Venere, Marte e Bacco,
Dal ciel discesi in terra
A parteggiare in quell’atroce guerra,
Vollero dar riposo
Al faticato fianco
Nell’antica osteria di Castelfranco
Dove la dolce notte
Dal Tassoni cotanto celebrata,
Venere innamorata
Tutt’intera trascorse
In braccio ora di Marte,
or del Tebano,
D’onta coprendo lo zoppo dio Vulcano.
Ma, giunta la dimane
Mentre il carro d’Apollo
Senza il menomo crollo
Della volta del cielo era salito
Alla più eccelsa parte,
Bacco ed il fiero Marte Zitti e cheti, lasciata in letto sola
La divina compagna,
Andarono a girar per la campagna.
Dopo un profondo sonno
Venere gli occhi dolcemente aprio
E non veggendo l’uno e l’altro dio
Giacere ai fianchi suoi,
Tale tirata diede al campanello
Che fece risonar tutto il Castello.
L’oste che stava intento
Ad aggirar l’arrosto
Le scale come un gatto ascese tosto,
E nella stanza giunse,
Dove in camicia,
seduta sul letto
In volto accesa d’ira e dì dispetto
Stava la diva donna,
Di cui la sera innanzi ebbe opinione
Ch’egli fosse un bellissimo garzone.
-Sai tu, villan cornuto,
Ove son iti i due compagni miei?
– Signora, io non saprei, Pronto rispose l’oste;
Ma dianzi per istrada
Quel dal pennacchio rosso e dalla spada
Guardandomi in cagnesco,
M’ha detto a mala pena
Che questa sera torneranno a cena.
A siffatta notizia
Venere bella serenò le ciglia;
Poi con gran meraviglia
Dell’oste lì presente
Come se fosse sola,
Le candide lenzuola
Spinse in mezzo alla stanza,
Le belle gambe stese,
Dall’ampio letto scese
Con un salto sì poco misurato
Che sollevandosi la camicia bianca,
Poco più su dell’anca,
Onde l’oste felice
(Lo dico o non lo dico?)
Di Venere mirò il divin bellico!
Ma non si creda già
C’he a quella vaga e seducente vista
Pensieri di conquista
L’oste pudico entro dì sé volgesse;
Anzi un’idea soavemente casta
D’imitar quel bellico con la pasta
Gli balenò nel capo;
Ond’egli qual modesto cappuccino,
Fatto alla Diva un riverente inchino
In cucina discese;
E da una sfoglia fresca
Che la vecchia fantesca
Stava stendendo sovra d’un tagliere,
Un piccolo e ritondo pezzo tolse,
Che poi sul dito avvolse
In mille e mille forme
Tentando d’imitare
Quel bellico divino e singolare.
E l’oste ch’era guercio e bolognese,
Imitando di Venere il bellico
L’arte di fare il tortellino apprese!”