Gioachino Belli, il censore. Colto dialetto d’un poeta reazionario.
Gioachino Belli,
il censore
Il colto dialetto
d’un poeta reazionario
Tratto da F. Berti,
Trilussa contro Maciste
Non si può prescindere dal Belli quando si parla dei sonetti e del vernacolo romanesco, sia per la vastità della sua produzione (oltre due migliaia di componimenti scritti prevalentemente nei sette anni fra il 1839 e il 1846), sia per la consapevolezza letteraria della sua opera. Pur avendo conosciuto la miseria e svolto lavori umili in gioventù, non si può considerare neanche lui un uomo del popolo: al contrario, frequentò l’Accademia degli Elleni e fondò con altri intellettuali controrivoluzionari come lui l’Accademia Tiberina, che si proponeva di promuovere gli studi retorici a Roma, i suoi primi passi nell’ambiente letterario s’ispiravano all’Arcadia, passò poi al verso bernesco e per tutta la vita si lasciò contendere tra il rigorismo accademico e l’avanguardia volgare. Per quanto vissuto lungo tempo in miseria dando lezioni private di lingua italiana, geografia, matematica, copiando e trascrivendo opere su commissione, non è mai stata rivolta realmente al popolo l’opera sua; durante i moti del ‘48 si schierò apertamente su posizioni antimazziniane, deciso e fervente reazionario. 1 Lasciava al sonetto e al ‘suo’ romanesco lo spazio d’una satira amara ugualmente rivolta contro i potenti e contro gli stessi repubblicani, prendendo atto dell’ingiustizia e però non lasciando intendere alcuna speranza di riscatto nell’azione libertaria. Leggeva quelle poesie in clandestinità e aveva lasciato disposizioni affinché venissero distrutte dopo la sua morte, cosa che figlio e nipote si guardarono bene dal fare: fu dunque lo stesso Belli a non credere per primo alla dignità letteraria di quelle rime sparse, per le quali scrisse pure un’introduzione programmatica nei primi tempi, ma dalle quali sempre tenne a dissociarsi parlandone con distacco, come se non fossero opera sua 2. Così egli scrive nel suo testamento:
«Dichiaro finalmente che quella qualunque porzione de’ ripetuti miei versi che per avventura sia di già conosciuta ed abbia in qualsivoglia guisa potuto circolare di voce in voce e di scatto in iscritto viene da me ripudiata per mia opera, sia perché realmente (per quanto è a mia notizia) va difforme da’ miei originali, e perché al postutto io nego di più riconoscere lavori da me fatti per solo capriccio e in tempi di mente sregolata, i quali si oppongono agl’intimi e veraci sentimenti dell’animo mio»3
Giuseppe Gioachino Belli aveva poco meno di quarant’anni quando iniziò a comporre i sonetti, quarantasei quando iniziò a prenderne le distanze: si tratta insomma d’un progetto paradossalmente ’minoritario’ nella valutazione complessiva della sua vita. Il poeta sostenne in un primo momento di voler svolgere una ricerca linguistica traendo come lui stesso disse una regola dal caso e una grammatica dall’uso, registrando cioè la parlata del popolo così come dal popolo l’aveva ascoltata, ma non si identificò mai nella lingua che troviamo nei Sonetti, proprio come al tempo del Berneri il Belli si pose come un intellettuale accademico, un politico reazionario che affermava di voler dare conto della lingua d’un popolo osservato con disillusione. Popolaresco dunque, non popolare. E torniamo a sottolinearlo, romanesco non romano: con questa voce infatti s’indicavano da un lato coloro che pur attribuendosi la cittadinanza romana non erano nativi del posto, dall’altro quelli che semplicemente appartenevano agli strati più bassi della popolazione4. Il problema rappresentato dall’uso di questo termine rispetto ai sonetti del Belli, è che loro destinatario non fu mai il popolo di Roma, non le classi subalterne ma l’elite dei salotti aristocratici: testimoni delle sue letture pubbliche furono personaggi come Gogol nel salotto della principessa Wolkonski a palazzo Poli, Domenico Gnoli in casa del proprio padre, Giuseppe Verdi in casa Ferretti.5 Fin dalle prime riunioni dell’Accademia Tiberina, formata non solo da poeti e letterati ma anche da avvocati, medici e funzionari, suo ‘lettore ideale’ non è stato il popolo, ma la classe dirigente romana e la sua intellighenzia.
Discorso a parte merita la ricerca lessicale, perché nonostante la prospettiva dell’osservatore distaccato, la poetica del ‘monumento alla plebe’ dichiarata nell’introduzione-manifesto, Belli tradisce un certo gusto per l’erudizione accademica nell’idea stessa del vernacolo come favella guasta da riaccomodare, un idioma dalle limitate possibilità destinato a scomparire se non interviene il poeta a dargli una ‘durevole fisionomia’: proprio in ragione di questo l’autore dei Sonetti non si limita a riprodurre la lingua del popolo come dichiarato nelle intenzioni, ma al contrario usa neologismi dialettali di sua invenzione ponendoli consapevolmente accanto ad arcaismi tratti dal Berneri e dal Peresio, mescolandoli con espressioni gergali, vocaboli dotti e termini volutamente ribaltati nella loro significazione. Se quindi il popolo non è destinatario della sua opera, anche la lingua risponde a un costrutto ideologico, a una ricerca e sperimentazione linguistica di cui rendiamo sentitamente merito all’autore, consci però che il suo reale valore non debba ricercarsi nella presunta documentazione d’un idioma preesistente, come abbiamo visto solo relativamente credibile, ma nella costruzione d’un modello al quale conformare l’identità dialettale che proprio con lui inizia a cristallizzarsi, a delineare per sé stessa un orizzonte normativo.6 Se è vero che il Belli scrisse per il teatro e collaborò con l’editoria pubblicando su alcuni giornali del suo tempo, la raccolta dei componimenti in vernacolo dovette aspettare gli anni tra le due guerre per ottenere una piena riabilitazione, gli anni di Trilussa. Prima d’allora veniva considerata una produzione minore, ostica sia per l’oscenità del linguaggio, sia per la difficile grafia con il raddoppio di vocali e consonanti, elisioni, apostrofi atti a rendere graficamente la pronuncia.
E’ nell’introduzione programmatica ai Sonetti che l’autore spiega i criteri della sua trascrizione fonetica, nell’insieme poche osservazioni non sistematiche in cui non mancano segnalazioni dell’arbitrarietà di alcune scelte anche dal punto di vista strettamente linguistico, morfologico e grammaticale: taluni fanno, alcuni mutano, molti pronunciano, generalmente avviene, ‘quasi sempre’ si altera (va da sé che quasi non vuol dire sempre): le ragioni di queste varianti non vengono indagate né approfondite in alcun modo dal poeta ed è molto interessante la distinzione che lui opera tra coloro che non si trovino nell’infima plebe, quelli che si trovino tra le classi più polite del popolo e quelli che invece sono la vera plebaglia 7: anche in questo caso non è chiaro come avvenga la distinzione, ma è evidente che lo stesso Belli sia consapevole di usi e costumi linguistici in qualche modo diversi sempre nell’ambito di quello che lui chiama dialetto romanesco. A questo proposito, nell’Introduzione ai Sonetti parla degli autori che in altri vernacoli presentano un modo di parlare condiviso da tutte le classi di una popolazione, donde nascono le ‘lingue municipali’ e nello stesso tempo avverte che non così avviene a Roma, dove come altri avevano osservato prima di lui un vero e proprio linguaggio comune di fatto non esiste; chi meglio può esserne consapevole, dal momento che la madre stessa del poeta parlava un dialetto diverso, essendo nativa di Napoli? La varietà e molteplicità dei contributi alla lingua franca dei migranti è del resto sottintesa all’uso stesso del termine ‘romanesco’, ovvero la lingua di coloro che rappresentano lo strato più basso di chi vive nella città eterna, non di rado neanche nativo del posto.
Non dobbiamo pensare che queste considerazioni siano da farsi esclusivamente per l’opera del Belli. Se per lingua volgare o dialettale s’intende la parlata d’un popolo analfabeta, allora l’atto stesso di consegnarla alla scrittura non può essere che una provocazione letteraria: è sempre l’elite culturale a riflettere sulla lingua del popolo, quando vuole parlare del popolo. Qui sta il paradosso di una letteratura vernacolare che nasce tra le classi più elevate. Ma se al tempo di Dante Alighieri il poeta aveva comunque in mente il popolo anche come destinatario dell’opera, che circolò realmente fra gli umili i quali da essa traevano non solo il diletto, ma anche l’insegnamento, per Gioachino Belli il popolo non ha speranza di riscatto, la sua reazionaria disillusione lo allontana dagli stessi umili di cui parla come di un terzo escluso, un protagonista assente. Solo nel prendere atto della contraddizione possiamo comprendere e valorizzare davvero l’opera straordinaria che questi duemiladuecento sonetti lasciano a noi: proprio attraverso questo repertorio abbiamo preso coscienza di un nuovo attore sulla scena del Risorgimento, quel popolo che è presente sullo sfondo, quel popolo che si arruola volontario nei Mille, che trama nell’ombra, mormora e d’un tratto prende le armi, combatte per l’avvenire dei propri figli. Un popolo del quale il potere è costretto ad accorgersi, a parlarne e farlo parlare, a descriverne il linguaggio ed eventualmente anche a biasimarne l’azione, ma questo giudizio critico rappresenta in qualche modo il riconoscimento di una nuova dignità. E’ un popolo corteggiato da ogni parte quello del Risorgimento, e come dice il proverbio quando il Diavolo ti corteggia è l’anima che vuole. L’arte e la letteratura non sono che l’avanguardia intellettuale cui è affidato il compito d’intervenire sulla percezione dello stato delle cose. E’ in questa prospettiva che la grandezza del Belli emerge in tutta la sua potenza, un’opera monumentale che lascia dietro di sé tracce documentarie grazie alle quali possiamo scrutare non visti attraverso le maglie della storia, sempre che ci si ponga prima la più importante delle domande, ovvero chi sia il narratore di questo racconto e quale la sua intenzione narrativa.
Note
1G.G. Belli, Introduzione ai Sonetti,Torino, Einaudi, 1978, “Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro”.
2Filippo Coarelli, Belli e l’antico. Roma, «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2000. “Il Belli lo ha esplicitamente dichiarato nella sua Introduzione: `ogni pagina è il principio del libro, ogni pagina il fine’”
3Marcello Teodonio, Vita di Belli, Roma, Castelvecchi, 2016.
4Claudio Costa, Fra dialetto e gergo. Lo sgherro romanesco del Seicento, Rivista del centro studi Giuseppe Gioachino Belli, anno IV n.3 settembre–dicembre 2006, “Una prova in absentia del suo valore potrebbe stare nel fatto che, come osservava il Prati, «il popolo romano non fa uso del termine romanesco, né per indicare sé stesso, né il suo parlare: lui usa Romani e romano»”.
5Giovanni Orioli, Belli, Giuseppe Gioacchino, in ‘Dizionario Biografico degli Italiani’, Vol. VII, 1970.
6Giovanni Orioli, Op. cit.: “Senonché il B. non è un pedissequo ripetitore della parlata plebea della sua città né si limita a riprodurla fedelmente come era nelle sue intenzioni, ma al contrario interviene, se con chiara coscienza o meno resta difficile dirlo, nel fatto linguistico.
7G.G. Belli, Introduzione ai Sonetti romaneschi, “La c si ascolta quasi sempre alterata… Alcuni non della infima plebe volgono l’articolo il in el, laddove la vera plebaglia dice sempre er… Generalmente, al principio delle parole… Questa teoria, comune in gran parte alle classi piú polite del popolo, va soggetta a capricciose eccezioni, se ne mostrerà la pratica ai debiti incontri…”