Morte e vitalità dei dialetti italiani nel terzo millennio

Istruzione scolastica nell’Italia dell’Ottocento. Illustrazione Berti/Fotor

Katalin Nagy, Morte e vitalità
dei dialetti italiani nel terzo millennio

Dottorato di ricerca in Linguistica – XXXIII ciclo 2019-20
Università degli studi ‘La Sapienza’, Roma

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Nota di Federico Berti

E’ una prospettiva molto interessante quella proposta dalla ricercatrice ungherese, che affronta il problema delle innovazioni recenti, i cosiddetti mutamenti divergenti nel dialetto dall’italiano standard e la sopravvivenza di una mentalità dialettale nell’approccio complessivo alla lingua nazionale, che continua a produrre varianti e codici personali spesso adoperati simultaneamente in uno stesso enunciato, da un medesimo parlante, ancora oggi. In pratica l’irrigidimento dei dialetti locali in lingue, conseguente all’estinzione del dialetto come lingua parlata dalla maggioranza della popolazione italiana, ha portato alla trasformazione dei dialetti in nuove commistioni di italiano regionale, italiano letterario, varie forme dialettali italianizzate, con l’apporto di contributi internazionali e l’intersezione con forme gergali, slang e altri codici di espressione caratteristici della contemporaneità.

Accanto al dialetto ormai classicizzato, vale a dire strutturato in lingua, non più parlato nella sua forma morfologicamente determinata se non da una ristretta cerchia di iniziati, si pone una moltitudine di codici linguistici spurii nei quali permangono voci dialettali provenienti da diverse tradizioni. Non un dialetto comune legato a un territorio di riferimento, ma varie tradizioni nelle quali codici espressivi e culture trovano una combinazione unica e irripetibile in ogni parlante. Quel che rimane dunque non è la forma di un dialetto in particolare, ma la mentalità che presiede alla necessità di produrre varianti di una lingua tetto, un concetto che personalmente riassumerei nell’idea (provocatoria) dell’eversione linguistica necessaria alla sopravvivenza e all’evoluzione della lingua stessa.

Katalin Nagy parte dalla fase post-unitaria e dal concetto di unificazione linguistica dell’Italia innescata dallo sviluppo industriale, dall’abbandono delle campagne, dalla diffusione della stampa, dall’istruzione elementare obbligatoria, dalla coscrizione militare e dalla burocratizzazione dell’amministrazione nazionale. Tutti eventi che comportano una progressiva restrizione dello spazio vitale per la dialettofonia. Il punto nodale da cui prende spunto la ricerca, è l’interesse manifestato nel dibattito accademico sul fenomeno della ‘morte delle lingue’, che ha suscitato riflessioni. Più di metà delle lingue esistenti si è estinta nell’ultimo mezzo millennio.

“Una lingua muore quando non ha più parlanti; chiaramente, il fenomeno presuppone che sia in atto una fase intermedia di bilinguismo in cui la lingua subordinata viene impiegata da un numero sempre minore di parlanti e in un numero ristretto di contesti, fino al momento in cui tale lingua si esaurisce definitivamente nell’uso”

Ovviamente possono essere molteplici le ragioni che portano alla morte di una lingua e l’analisi del suo stato complessivo di rischio può dipendere da molti fattori, tra cui l’età media dei parlanti quella lingua (meno giovani, più critica la sopravvivenza) e l’isolamento della comunità linguistica (meno contatti, più probabilità di sopravvivenza anche per un ristretto numero di parlanti. A minacciare una lingua possono intervenire fattori sociali e politici come la discriminazione, le guerre, l’emigrazione, ogni fattore ha la sua incidenza e non è sempre possibile determinare una causa unica per la morte di una lingua, possiamo però stabilire se questa morte sia avvenuta per cause naturali, ovvero se la lingua si sia evoluta in lingue successive, o per morte coatta e violenta, senza lasciare eredi.

Da circa trent’anni si parla di ecosistema linguistico, postulando l’idea che in un sistema sociale la varietà delle componenti culturali costituisca una risorsa da preservare, così come la biodiversità è fondamentale per l’ambiente. Per questo motivo, ogni volta in cui una lingua corre il rischio di estinguersi il sistema stesso produce forme di tutela per la sua sopravvivenza, come avviene con la nascita di movimenti culturali interni a quell’ecosistema per la tutela e la salvaguardia della lingua che rischia di estinguersi. Naturalmente lo stato di resistenza culturale comporta comunque un cambiamento nella condizione della lingua stessa, che viene sempre più codificata e cristallizzata sottraendola allo sviluppo e all’evoluzione naturale ad opera dei parlanti stessi.

La morte di un dialetto avviene secondo le stesse dinamiche proprie della morte di una lingua. La nozione di dialetto come variante di una lingua madre tuttavia, propria della linguistica angloamericana, non è applicabile al contesto italiano in cui la lingua nazionale e i dialetti si sono venuti a sviluppare come sistemi linguistici distinti, derivati dal latino ma ognuno con una propria dinamica evolutiva, in cui l’italiano derivante da uno dei dialetti romanzi, il toscano, si è venuto col tempo a porre come primus inter pares per motivi politici e amministrativi, cosa che ha portato a studiare i dialetti come forme linguistiche parallele a quella della lingua nazionale. Negli anni ’50 del Novecento, vari studiosi di linguistica hanno proclamato il rischio di estinzione per la dialettofonia, ponendo in evidenza il problema dell’impoverimento culturale che questo fenomeno stava implicando, poiché la morte di una lingua comporta anche la perdita del sapere, del folklore, del patrimonio culturale che quella lingua porta con sé.

Pier Paolo Pasolini in modo particolare osservò come lo sviluppo dei media di massa, ovvero la rapida diffusione del linguaggio del giornalismo e della televisione, stesse portando a forme di livellamento linguistico sia nella lingua nazionale, sia nello sviluppo di koiné dialettali tendenti all’unificazione. Ignorati, avversati nel periodo post-unitario quando tutti li parlavano, perseguitati al tempo del fascismo, quando i dialetti si sono trovati nella condizione di manifestazioni irregolari, marginali hanno conosciuto una sorta di gloria postuma con la celebrazione letteraria, l’attenzione scientifica e persino un parziale recupero nella didattica scolastica, ma questa nuova condizione di tutela premurosa, simile a quelle campagne per salvare dall’estinzione il panda, il koala o la stella alpina, comporta di fatto un’accelerazione della crisi identitaria proprio per la condizione di cattività in cui viene coltivato quel sistema linguistico.

Benincà propone una prospettiva diversa, meno apocalittica. I dialetti italiani non stanno morendo, si stanno piuttosto trasformando, sostituiscono materiali lessicali e morfologia con elementi esterni avvicinandosi alla lingua standard, ma mostrano fenomeni di mutamento convergente anche rispetto alle varietà regionali e sub-regionali dell’italiano portando così a varianti locali della lingua nazionale che mantengono in parte l’antica dialettofonia integrandola a nuovi contributi linguistici provenienti da varie influenze, anche internazionali. I dialetti quindi, se la loro vicenda viene inquadrata in questa prospettiva, non muoiono ma si trasformano. In pratica la diffusione della lingua nazionale non è avvenuta in modo immediato a partire dall’Unità d’Italia, mantenendo per non meno di settant’anni forme di plurilinguismo che solo nella seconda metà del Novecento si sono stabilizzate dando luogo a una vera e propria unità linguistica del paese, ma questo non ha portato mai a una vera e propria morte dei dialetti, che si sono continuati a parlare in forme diverse, spesso a loro volta spurie, integrate nella lingua nazionale come una sorta di lingua del e degli affetti, un codice linguistico familiare di fatto rimasto in uso fino ai giorni nostri.

Quindi, in una conversazione i parlanti possono passare dal dialetto all’italiano o dall’italiano al
dialetto
(code switching); allo stesso modo, i parlanti possono usare espressioni italiane insieme
con parole dialettali
(code mixing). In questo modo, ogni italiano possiede un repertorio linguistico che può variare tra l’uso del dialetto locale, del dialetto regionale, dell’italiano delle città. Dunque, i dialetti vengono usati tuttora. Dalla metà dell’Ottocento, ossia dopo l’Unità, nascono tre fenomeni: la realizzazione degli italiani regionali, l’italianizzazione dei dialetti, l’entrata dei tratti dialettali nell’italiano”.

Molto interessanti le considerazioni di Katalin Nagy sul fenomeno dei vocabolari dialettali, che iniziano a compilarsi fin dal XVIII secolo ma in primo momento si rivolgono, quasi paradossalmente, a quei letterati che intendono approfondire e arricchire le loro competenze linguistiche nell’italiano letterario. Le prime opere di questo tipo tendono infatti a registrare solo quelle voci dialettali che si discostano molto dal toscano, evidentemente già considerato come ‘lingua tetto’, per migliorare la propria conoscenza del toscano stesso. Così avviene col napoletano di Galiani e Farai, con il padovano di Patriarchi, il veneziano di Boerio, il bolognese di Coronedi-Berti, tutte opere che non si ponevano ancora, quando vennero scritte, il problema di preservare forme linguistiche marginali dall’estinzione, dato che allora si trattava anzi di sistemi linguistici preponderanti, condivisi dalla maggioranza della popolazione italiana e quindi ben lontani dall’estinzione, ma piuttosto di migliorare la consapevolezza nell’uso dell’italiano letterario da parte della minoranza erudita. Erano insomma opere ad uso degli intellettuali, non del popolo, la conoscenza del dialetto doveva servire a migliorare e arricchire la competenza nella lingua letteraria, si approfondiva insomma il dialetto per conoscere l’italiano.

Addirittura si assiste verso la metà dell’Ottocento al paradosso del vocabolario dialettale compilato per poter distinguere le voci guaste del dialetto da quelle della lingua nazionale, come avviene con Basilio Puoti che realizza proprio un elenco ragionato di voci dialettali napoletane affiancate dal corrispondente toscano, allo scopo dichiarato di far cansare gli errori di lingua. Come si può ben vedere l’interesse iniziale verso il dialetto non era dettato dalla volontà di preservare il dialetto, ma al contrario dal desiderio di promuovere il toscano come dialetto nazionale, ovvero come codice linguistico unificante. Lo stesso scopo dichiarato dal Dizionario domestico preceduto da varii esercizii pratici di lingua ordinati per categorie ad uso delle scuole elementari di Domenico Contursi (1867), nel quale si poneva chiaramente la finalità didattica di sostituire alle barbare espressioni del dialetto parole e modi italiani. Nagy è prodiga di esempi come questo, citando il napoletano del Volpe (1869), il veneziano del Contarini (1844), tutti accomunati dallo stesso intento che era paradossalmente quello di prendere coscienza delle differenze fra dialetto e lingua nazionale, per meglio apprendere quest’ultima.

Si vengono a costituire due processi di relazione tra lingua nazionale e dialetto locale: da un lato la convergenza linguistica, che si può riassumere come l’avvicinamento della lingua subalterna alla lingua egemone, che non comporta la sostituzione della prima con la seconda ma piuttosto una sua trasformazione fonologica, grammaticale e lessicale funzionale all’integrazione tra i due codici linguistici. Dall’altro, processi di mutamento cosiddetto divergente, vale a dire indipendente dalla lingua egemone, che testimonia la vitalità del dialetto stesso e la sua disponibilità all’evoluzione. Di questi ultimi la tesi di Katalin Nagy offre numerosi esempi di trasformazione progressiva sia relativi al periodo ottocentesco, sia nel periodo della cosiddetta ‘morte’ del dialetto medesimo, possiamo anzi dire che il corpus della sua ricerca sia proprio nell’approfondimento di queste forme di evoluzione, per le quali si rimanda al testo integrale della sua tesi di dottorato.

In conclusione, prendere coscienza della vitalità manifestata dai dialetti, sia quando erano ancora lingue prevalenti, sia dopo la loro marginalizzazione, non vanifica il lavoro di ricostruzione da parte degli studiosi di linguistica, che al contrario ha avuto il grande merito di testimoniare le varie fasi dell’evoluzione, restituendo un’immagine tutt’altro che vaga del rapporto fra lingue egemoni e lingue subalterrne. Nello stesso tempo però, è proprio questa vitalità che dovrebbe imporre al linguista una duplice attenzione: da un lato al dialetto com’era, dall’altro alle varietà linguistiche in trasformazione, quali le forme di sincretismo con altri codici linguistici e così via. Si tratta di due rovesci della stessa medaglia, il bolognese petroniano promosso dalle accademie e dalle associazioni per la salvaguardia del dialetto, e le sue forme spurie in costante trasformazione. Queste realtà possono entrare in conflitto quando una delle due venga a porsi come normante rispetto all’altra, è per tale motivo che un linguista non dovrebbe liquidare le varianti in cui si imbatte giudicandole come semplici errori, ma piuttosto prendere atto della loro diffusione, registrarle, compararle, mentre il parlante qualsiasi forma di dialetto non dovrebbe rifiutare l’opportunità di approfondire gli aspetti morfologici, lessicali e grammaticali delle forme dialettali stereotipate, può al contrario trarre beneficio dagli studi linguistici per migliorare nella propria capacità d’intervento sull’evoluzione dei codici nella loro varietà e molteplicità.

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