Guerra cognitiva e prevenzione del dissenso

Guerra cognitiva. Articolo tratto da: Federico Berti, Rivoluzione interiore

Cos’è la guerra cognitiva

Tratto da: Federico Berti,
Rivoluzione interiore

“L’utopia democratica non è una società pacifica. Deve la sua apparente stabilità all’aperta legittimazione di una guerra cognitiva1 fondata sull’inganno e la menzogna sistematica, tema intorno al quale si è sviluppato negli ultimi anni un paranoico mormorìo a sfondo per lo più vittimistico: da un lato la tendenza a sminuire, sottovalutare, la presunzione che manipolati (o manipolatori) siano sempre gli altri, dall’altro la convinzione che non si possa opporre a questo fenomeno una resistenza ragionevole2. La reazione prevalente sia nel privato che nel pubblico è nella logica del disimpegno, o in alternativa una disorganizzata opposizione da parte di piccoli gruppi minoritari, riassorbiti nel sistema stesso come innocue eccezioni alla regola. Si fa insomma un gran parlare di manipolazione, ma non risultano forme di resistenza organizzata a questo tipo di violenza, si pensa di poterla combattere sul suo stesso terreno, discutendo razionalmente, argomentando, ma la dialettica si rivela spesso completamente inutile.

Il primo ad approfondire il tema della guerra psicologica interna, per indicare la violenza cognitiva perpetrata dalle classi dominanti attraverso il monopolio dell’industria culturale, è stato il sociologo francese Jacques Ellul, sostenendo che la propaganda e la manipolazione delle masse non siano strumenti abusati solo dai regimi autoritari, ma anche dai paesi cosiddetti democratici3. La guerra cognitiva è particolarmente insidiosa perché la sua violenza non è ideologica, ma psicologica: la propaganda interna altera nelle masse il senso della realtà in modo subdolo, spacciando la propria realtà come il migliore dei mondi possibili, ma imponendosi di fatto come un’autarchia dissimulata, una democrazia solo apparente, una tirannide che non ha il coraggio di mostrare il suo vero volto. Il risultato è che in mancanza di un’aggressione conclamata, si tende ad abbassare le difese e ciò rende la mente più vulnerabile all’abuso. Tutto questo avviene attraverso una sistematica manipolazione delle comunicazioni a ogni livello, personale e collettivo.

Timothy Melley1 ha ripreso la questione dell’abuso psicologico parlando della guerra fredda nella seconda metà del Novecento, con riferimento in modo particolare all’uso consapevole della propaganda politica e della pubblicità per prevenire il dissenso interno prima di doverlo reprimere. Melley sosteneva che i mass-media americani trattassero allora l’antagonista sovietico in modo sostanzialmente analogo a come aveva fatto il nazismo con le teorie del complotto ebraico2, promuovendo forme di disinformazione le quali da un lato garantivano una certa stabilità politica, dall’altro però inducevano un’ideazione distorta favorendo l’insorgere del disturbo paranoico, stimolando un irrazionalismo vittimistico e una cultura del sospetto3. Questo tipo di manipolazione delle coscienze ebbe un effetto negativo sulla percezione che il mondo occidentale aveva della realtà, sull’affettività morbosa che ingenerò nelle relazioni sociali, su una deriva della ragione favorita anche da una crescita esponenziale nel ricorso a sostanze psicoattive, in alcuni casi prodotte e somministrate dalle stesse forze governative come nel controverso progetto MK-Ultra4.

Secondo il tedesco Herbert Marcuse, anche nel blocco sovietico la propaganda contribuì al diffondersi di una sindrome paranoica, che a lungo andare si rivelò controproducente per il regi-me stesso1. Il controllo totalitario sull’informazione ridusse la capacità dei cittadini di distinguere tra realtà e finzione mediatica: l’alterazione di questa percezione attraverso la comunicazione pubblica sovietica, era tuttavia una violenza più ideologica che psicologica, motivata da una prospettiva di cambia-mento radicale che avrebbe dovuto portare (in un futuro più ipotetico che realistico) alla soluzione dei conflitti interni2. Parole destinate a contraddirsi, dal momento che il socialismo reale non riuscì mai ad andare oltre la dittatura del proletariato. Se nella propaganda capitalista, l’illusione di libertà si stava dimostrando un velo di pura apparenza, smentito da un costante ricorso alla menzogna e all’inganno, così nel blocco socialista la repressione del dissenso costituiva secondo Marcuse parte integrante di una politica in cui la libertà era più teorica che pratica3.”L’utopia democratica non è una società pacifica. Deve la sua apparente stabilità all’aperta legittimazione di una guerra cognitiva1 fondata sull’inganno e la menzogna sistematica, tema intorno al quale si è sviluppato negli ultimi anni un paranoico mormorìo a sfondo per lo più vittimistico: da un lato la tendenza a sminuire, sottovalutare, la presunzione che manipolati (o manipolatori) siano sempre gli altri, dall’altro la convinzione che non si possa opporre a questo fenomeno una resistenza ragionevole2. La reazione prevalente sia nel privato che nel pubblico è nella logica del disimpegno, o in alternativa una disorganizzata opposizione da parte di piccoli gruppi minoritari, riassorbiti nel sistema stesso come innocue eccezioni alla regola. Si fa insomma un gran parlare di manipolazione, ma non risultano forme di resistenza organizzata a questo tipo di violenza, si pensa di poterla combattere sul suo stesso terreno, discutendo razionalmente, argomentando, ma la dialettica si rivela spesso completamente inutile.

Il primo ad approfondire il tema della guerra psicologica interna, per indicare la violenza cognitiva perpetrata dalle classi dominanti attraverso il monopolio dell’industria culturale, è stato il sociologo francese Jacques Ellul, sostenendo che la propaganda e la manipolazione delle masse non siano strumenti abusati solo dai regimi autoritari, ma anche dai paesi cosiddetti democratici3. La guerra cognitiva è particolarmente insidiosa perché la sua violenza non è ideologica, ma psicologica: la propaganda interna altera nelle masse il senso della realtà in modo subdolo, spacciando la propria realtà come il migliore dei mondi possibili, ma imponendosi di fatto come un’autarchia dissimulata, una democrazia solo apparente, una tirannide che non ha il coraggio di mostrare il suo vero volto. Il risultato è che in mancanza di un’aggressione conclamata, si tende ad abbassare le difese e ciò rende la mente più vulnerabile all’abuso. Tutto questo avviene attraverso una sistematica manipolazione delle comunicazioni a ogni livello, personale e collettivo.

Timothy Melley1 ha ripreso la questione dell’abuso psicologico parlando della guerra fredda nella seconda metà del Novecento, con riferimento in modo particolare all’uso consapevole della propaganda politica e della pubblicità per prevenire il dissenso interno prima di doverlo reprimere. Melley sosteneva che i mass-media americani trattassero allora l’antagonista sovietico in modo sostanzialmente analogo a come aveva fatto il nazismo con le teorie del complotto ebraico2, promuovendo forme di disinformazione le quali da un lato garantivano una certa stabilità politica, dall’altro però inducevano un’ideazione distorta favorendo l’insorgere del disturbo paranoico, stimolando un irrazionalismo vittimistico e una cultura del sospetto3. Questo tipo di manipolazione delle coscienze ebbe un effetto negativo sulla percezione che il mondo occidentale aveva della realtà, sull’affettività morbosa che ingenerò nelle relazioni sociali, su una deriva della ragione favorita anche da una crescita esponenziale nel ricorso a sostanze psicoattive, in alcuni casi prodotte e somministrate dalle stesse forze governative come nel controverso progetto MK-Ultra4.

Secondo il tedesco Herbert Marcuse, anche nel blocco sovietico la propaganda contribuì al diffondersi di una sindrome paranoica, che a lungo andare si rivelò controproducente per il regi-me stesso1. Il controllo totalitario sull’informazione ridusse la capacità dei cittadini di distinguere tra realtà e finzione mediatica: l’alterazione di questa percezione attraverso la comunicazione pubblica sovietica, era tuttavia una violenza più ideologica che psicologica, motivata da una prospettiva di cambia-mento radicale che avrebbe dovuto portare (in un futuro più ipotetico che realistico) alla soluzione dei conflitti interni2. Parole destinate a contraddirsi, dal momento che il socialismo reale non riuscì mai ad andare oltre la dittatura del proletariato. Se nella propaganda capitalista, l’illusione di libertà si stava dimostrando un velo di pura apparenza, smentito da un costante ricorso alla menzogna e all’inganno, così nel blocco socialista la repressione del dissenso costituiva secondo Marcuse parte integrante di una politica in cui la libertà era più teorica che pratica3“.

Tratto da: Federico Berti, Rivoluzione interiore

Note

1Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1967.

2Sulla dittatura del proletariato come fase transitoria nella concezione marxista-leninista e la dolorosa necessità di una fase totalitaria nel cammino verso la società senza classi, si veda la Storia del Marxismo di Eric Hobsbawm, Torino, Einaudi, 1978.

3Sulla questione della democrazia apparente o ‘totalitarismo invertito’, si rimanda alla lucida analisi di Sheldon Wolin, Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism. Princeton University Press, 2010. Wolin sostiene che la natura oligarchica e corporativa degli Stati Uniti sia caratterizzata da un controllo esasperato dell’opinione pubblica per garantirneil perfetto bilanciamento. L’influenza dei gruppi di interesse, il sistema di sorveglianza e l’uso della propaganda hanno contribuito al costituirsi di un sistema politico tutt’altro che democratico. È piuttosto un totalitarismo invertito, dove il controllo autoritario viene esercitato da una rete di interessi economici e politici, piuttosto che da un leader carismatico. In questa forma di fascismo strisciante, la volontà popolare non viene schiacciata da strumenti di coercizione fisica, ma indotta a conformarsi collaborando con il sistema.

1Timothy Melley, Empire of Conspiracy. The Culture of Paranoia in Postwar America, Cornell University Press, 2000.

2Michael Barkun osserva la convergenza tra propaganda antisemita e anticomunista nella letteratura dell’estrema destra americana, si rimanda al suo contributo: A Culture of Conspiracy. Apocalyptic Visions in Contemporary America, University of California, 20132.

3Jonathan Metzl, The Protest Psychosis. How Schizophrenia Became a Black Disease, Boston, Beacon Press, 2009. L’autore ripercorre la narrativa complottista nell’estrema destra del suprematismo bianco americano durante la Guerra Fredda, mostrandone l’influenza sulle diagnosi di schizofrenia in particolar mo-do nei pazienti afro-americani maschi.

4Si rimanda al contributo di John Marks, The Search for the “Manchurian Candidate”. The CIA and Mind Control. The Secret History of the Behavioral Sciences. New York, Norton & Company, 1991, e all’articolo di Stephen Kinzer, un giornalista del ‘New York Times’ che ricostruisce i collegamenti fra questo progetto e la guerra fredda, Poisoner in Chief. Sidney Gottlieb and the CIA Search for Mind Control, New York, Henry Holt and Co, 2019. Il direttore della divisione scienza e tecnologia dell’intelligence statunitense, Sidney Gottlieb, ha confermato nel 1977 durante un’audizione in Senato la sua responsabilità nel programma MK-Ultra che prevedeva esperimenti di controllo mentale su cittadini inconsapevoli e l’introduzione deliberata di sostanze psicoattive nelle università, con l’obiettivo di diffondere l’uso di queste sostanze tra i giovani, creando una cultura delle droghe per diffondere dipendenza in modo da rendere più facile il controllo mentale della popolazione.

1Il primo tentativo di formulare in modo organico il concetto di guerra cognitiva si trova in Frantz Fanon, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 2007:19611. La violenza sistematica perpetrata dalle classi dominanti contro le classi subalterne è finalizzata a mantenere il controllo politico ed economico e si manifesta, prima che nell’oppressione fisica, attraverso l’inculturazione.

2Meno ottimistica la prospettiva offerta da Zygmunt Bauman in Modernità liquida, Bari, Laterza, 2011:20001, dove la smaterializzazione della società non la-scia alternativa al disagio, alla crisi dell’individuazione, alla disperazione.

3Jacques Ellul, Propaganda, Prato, PianoB, 2023:19621. Ellul ha sottolineato l’importanza di comprendere il ruolo della propaganda e della manipolazione delle masse nella società moderna, invitando alla vigilanza critica nei confronti dei messaggi che ci vengono trasmessi dai media e dalle autorità. La sua analisi della guerra cognitiva è ancora oggi considerata una delle più influenti e innovative nel campo degli studi sulle comunicazioni di massa.


Tratto da: Federico Berti,
Rivoluzione interiore


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