Chico Forti, l’assassino eccellente.

Caricatura di Chico Forti. (Federico Berti)

Chico Forti,
l’assassino ‘eccellente’

Articolo di Federico Berti

Nel caso Forti si annida la serpe del conflitto fra poteri dello Stato, che il governo di Giorgia Meloni sta portando avanti mostrando un’aperta conflittualità con la magistratura e la giustizia. Chico Forti rappresenta per Fratelli d’Italia un caso di malagiustizia americana, la persecuzione di un onesto imprenditore italiano. Tesi adombrata anche nei media di questi giorni. Un prigioniero eccellente dunque, bottino politico e insieme ulteriore, subdola (implicita) presa di posizione contro il sistema garantista

Giorgia Meloni e il caso Forti

Giorgia Meloni ha suscitato un caso mediatico significativo per il rimpatrio di Chico Forti, un cittadino italiano condannato all’ergastolo negli Stati Uniti per omicidio. Il motivo principale dietro questo interesse è legato senza dubbio al successo diplomatico e politico che rappresenta il rientro di Forti in Italia. Il governo italiano, attualmente guidato da Meloni, ha lavorato intensamente per ottenere il riconoscimento della sentenza penale irrevocabile emessa dalle autorità statunitensi. La Presidente del Consiglio ha espresso ovviamente soddisfazione per il risultato, definendolo un proprio merito e uno straordinario traguardo diplomatico. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha descritto il rientro di Forti come un motivo di soddisfazione per l’intero Paese, anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha sottolineato che il ritorno di Forti è un risultato ottenuto con una grande azione del governo e (inutile dirlo) del proprio ministero.

Tuttavia, non tutti hanno accolto con favore l’accoglienza di Forti da parte di Meloni e del suo governo. Alcuni hanno espresso perplessità sul motivo per cui la premier abbia voluto incontrare personalmente Forti, con tanto di foto celebrativa, al suo arrivo all’aeroporto. Questo atteggiamento è stato visto come l’accoglienza in pompa magna di un uomo riconosciuto colpevole di un delitto gravissimo, anche se professatosi sempre innocente. La questione si fa tanto più controversa a causa dell’indignazione per il trattamento di IIlaria Salis in Ungheria, cittadina italiana per cui il governo ha espresso al contrario parole durissime, nessun segno di solidarietà ma addirittura commenti e dichiarazioni pubbliche al limite della diffamazione, come il padre della donna ha dichiarato in televisione. Qualcuno si domanda perché tanto entusiasmo per Forti e non per un altro dei molti detenuti italiani all’estero, perché tanta differenza di pesi e misure.

Non si può fare a meno di notare tra l’altro come il governo Meloni stia attribuendo esclusivamente a sé medesimo il rimpatrio di Chico Forti, quando in realtà dovrebbe riconoscere anche il merito dell’onorevole Luigi Di Maio, come sarebbe più corretto affermare. Infatti il rimpatrio è stato avviato proprio durante il suo mandato come Ministro degli Esteri, è dunque un’operazione da ascrivere più alle istituzioni italiane che a un partito politico in particolare. Ma su questo per il momento non ci soffermeremo.

Quanti sono i detenuti italiani all’estero nel mondo?

Veniamo alla questione dei pesi e delle misure: secondo i dati forniti dalla stampa, il numero di detenuti italiani all’estero è di circa 2.000-2.200. Questi detenuti si trovano in varie parti del mondo con la maggior parte concentrata nelle carceri europee, come in Germania, Spagna, Francia e Belgio, e al di fuori dell’Unione Europea, in paesi come Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti e Brasile. La varietà dei reati contestati va dal traffico di sostanze stupefacenti alla contiguità con organizzazioni criminali internazionali, fino all’omicidio, con una parte significativa che sconta pene per reati minori come il possesso di droga o furti.

Le condizioni di questi detenuti sono spesso critiche. Problemi di comunicazione con i propri legali e famiglie, isolamento, carenze nell’assistenza consolare e finanziaria, diritto alla salute e all’equo processo. Le famiglie dei detenuti spesso denunciano la mancanza di supporto adeguato da parte delle autorità italiane, con Uffici Consolari e Ambasciate che talvolta si trovano a distanze considerevoli dai luoghi di detenzione, limitando così l’assistenza effettiva che possono offrire ai connazionali detenuti in paesi stranieri. Inoltre, le difficoltà economiche legate ai costi delle procedure legali rappresentano un ulteriore ostacolo per le famiglie, poiché tali costi spesso superano le loro reali possibilità finanziarie. Molti sono in attesa di giudizio o estradizione, altri sono già stati condannati, come nel caso di Chico Forti.

Perché Chico Forti è stato condannato

Nato a Trento nel 1959, divenne noto per aver partecipato al quiz televisivo Telemike negli anni ’90, vincendo una somma considerevole che lo portò negli Stati Uniti, dove si trasferì nel 1992. Lì conobbe la sua seconda moglie e iniziò a costruire una carriera nel mondo televisivo, producendo contenuti per canali come ESPN. In quegli anni la rete era in una fase di rapida espansione, si stava affermando come una potenza globale del giornalismo sportivo. La sua programmazione era incentrata principalmente sul telecronismo di eventi dal vivo, con una forte enfasi sul baseball, sul football americano e sul basket, una rete più volte accusata di sacrificare alla visibilità mediatica e al rientro pubblicitario l’approfondimento dei suoi programmi. L’imprenditore italiano insomma, letteralmente cavalcava l’onda delle nuove emittenti private, come aveva fatto in Italia Silvio Berlusconi.

La controversia processuale

La sua vita prese una svolta drammatica nel 1998, quando fu accusato dell’omicidio di Dale Pike, figlio di Anthony, con cui Forti stava trattando l’acquisto di un hotel a Miami. Pike fu trovato morto con due proiettili nel cranio su una spiaggia in Florida. Bisogna dire che in un precedente processo l’italiano era stato accusato di frode e circonvenzione di incapace, in relazione all’acquisto del Pikes Hotel, di proprietà di Anthony Pike, padre della vittima. La teoria dell’accusa era che Forti, approfittando dello stato di salute dell’allora proprietario, volesse ottenere in modo fraudolento il possesso dell’hotel. Peccato che Pike fosse affetto da demenza e legalmente interdetto, quando Forti gli fece firmare l’atto di vendita. Da quell’accusa l’italiano venne prosciolto nolli presequi, ovvero non per assoluzione con formula piena, ma per mancanza di elementi su cui fondare un proseguimento del processo. Secondo i sostenitori della tesi innocentista, la polizia avrebbe disseminato indizi sulla scena del delitto per incastrare l’italiano, per vendicarsi di un documentario da lui prodotto, che metteva in dubbio l’operato delle forze dell’ordine nel caso del killer di Versace. La controversia era dunque nel fatto che le accuse in merito alla circonvenzione d’incapace e alla truffa immobiliare, da cui era stato prosciolto per mancanza di prove, fossero state utilizzate dall’accusa come movente per l’omicidio.

Tuttavia le prove a carico di Forti, unite al movente, erano tutt’altro che aleatorie e andavano ben oltre la controversia con il padre della vittima. In primo luogo la pistola calibro 22 con cui Dale Pike era stato ucciso, apparteneva a lui sebbene si trovasse in uso a Thomas Knott. I tabulati telefonici dimostravano che l’imputato si trovava nelle vicinanze del luogo in cui avvenuto l’omicidio, proprio mentre questo si consumava. Vennero trovate nella sua automobile tracce di sabbia compatibili con quella della spiaggia in cui era stato ritrovato il cadavere. Inoltre, in un primo momento Chico Forti aveva negato di aver incontrato Dale Pike, per poi ritrattare questa sua dichiarazione durante un successivo interrogatorio e anche questo sollevò dubbi sull’onestà delle sue dichiarazioni.

Un prigioniero ‘eccellente’

Da queste informazioni possiamo concludere che la questione sollevata rispetto all’impegno per il rimpatrio di Chico Forti solleva interrogativi sulle motivazioni di questa scelta. Perché proprio lui e non (poniamo) uno qualsiasi degli altri 2000 e passa detenuti italiani nelle carceri di tutto il mondo? Perché non un povero, un disperato, un rinnegato, magari in attesa di giudizio o condannato per reati più lievi? Il rimpatrio di un detenuto può essere influenzato da diversi fattori, tra cui il coinvolgimento politico, la visibilità del caso e le relazioni diplomatiche. Nel complesso, è evidente che siamo di fronte a un personaggio pubblico, un imprenditore, un magnate delle telecomunicazioni, in altre parole un ricco, un emigrante di successo, un detenuto di serie. Per non parlare delle tesi complottiste sulla sua innocenza, che vedono in Forti un caso di malagiustizia americana, tesi in merito alle quali Giorgia Meloni si è espressa pubblicamente sostenendo di aver sempre ritenuto innocente il condannato, mettendo così in dubbio l’operato della giustizia americana.

Nel caso Forti si annida anche la serpe del conflitto fra poteri dello Stato, che il governo di Giorgia Meloni sta portando avanti mostrando un’aperta contrasto con la magistratura e la giustizia. Chico Forti rappresenta per Giorgia Meloni un caso di malagiustizia americana, la persecuzione di un onesto imprenditore italiano. Tesi adombrata anche nei media in questi giorni. Un prigioniero eccellente, dunque. Un bottino politico e insieme un’ulteriore, subdola (implicita) presa di posizione contro il sistema garantista

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