Cronaca, leggenda, mito, favola. Quattro livelli della realtà nella narrazione storica.
Cronaca, leggenda, mito, favola.
Quattro livelli di realtà nella narrazione storica.
Articolo di Federico Berti
In collaborazione con
Fondazione Bruno Kessler, Trento
Istituto storico di Rovereto
Regione Trentino
La domanda di partenza è in quale prospettiva il racconto di un cantastorie si possa considerare prova documentaria nella ricerca storiografica, ovvero in che senso lo si possa configurare come più o meno ‘autentico’. Un problema filosofico, prima che narrativo, investe concetti complessi come la nozione di realtà, l’essere e il non essere, vero e falso, principio di non contraddizione, fisica e metafisica. Sono contento di poter tornare sull’argomento, che trovo quanto mai attuale nell’epoca dell’assalto al buon senso che stiamo vivendo. Come ho detto qui, il problema è valutare sempre chi mi racconta cosa e perché.
Cronaca
Nel repertorio dei cantastorie si parla genericamente di ‘fatti’ per indicare testi cantati che riferiscono, o pretendono di riferire, avvenimenti reali. Una sorta di cronaca del tempo, da alcuni paragonata al reportage giornalistico o se si vuole al giornalismo d’inchiesta; in realtà non troveremo mai due narrazioni perfettamente identiche in testate giornalistiche diverse, ugualmente non avremo storie cantate nello stesso modo nemmeno da uno stesso cantore in momenti successivi. La verità è madre delle fake news. L’interpretazione dei fatti sarà diversa in base alle convinzioni e alle forze sociali che il racconto più o meno direttamente coinvolge. Ho esemplificato questo livello di realtà nel classico Naufragio del Sirio di cui parlavano Roberto Leydi e Bruno Pianta nel secolo scorso, una tragedia in mare nei pressi di Cartagena cui la stampa di primo ‘900 non aveva dato visibilità, ma le cui notizie si erano diffuse proprio nei fogli volanti dei cantastorie, a loro volta esplosi in decine di varianti locali ad opera dei cori spontanei. Il senso della realtà si dimostra soggetto a fluttuazioni, dinamiche di elaborazione sia individuale che collettiva, ragion per cui non avremo una sola verità monolitica ma versioni differenti dello stesso racconto, o addirittura il silenzio. La verità è una scelta fin da questo primo livello.
Leggenda
Se la cronaca è caratterizzata dalla presenza di fonti o documenti verificabili, la distanza storica (o geografica) può portare alla mancanza di documentazione e dunque all’impossibilità di determinare come realmente siano andate le cose. Pensando a Trento, viene in mente la leggenda popolare del vescovo Vigilio vissuto nel IV secolo, che secondo la narrazione riferita dagli etnografi romantici, sente suonare a morto la campanella dell’eremita Romedio in Val di Non e s’incammina verso il santuario per rendere omaggio al defunto. Sebbene la leggenda aurea identifichi nel santo un personaggio storico realmente esistito nell’XI secolo, vale a dire 500 anni dopo il vescovo di Trento, vi sono storici e intellettuali che sostengono l’esistenza di un altro personaggio con lo stesso nome, contemporaneo del patrono della città e dunque legittimano il racconto popolare. Nessuno ha saputo dare a questo dissidio una prova documentaria definitiva, dunque restiamo nell’alone indeterminato della leggenda locale, come ho scritto qui. Nonostante l’impossibilità di una dimostrazione coerente, entrambe le versioni del racconto vengono considerate ‘vere’ e dunque reali, da chi le riporta. Nel dibattito però va detto che è in gioco la legittimità di una donazione di miniere nel Tirolo fatta alla chiesa di Roma dal conte di Thaur, dunque l’identificazione di questi con il santo non è priva di collegamenti con la realtà storica, essendo stata la proprietà di quei terreni rivendicata dallo Stato Pontificio per otto secoli. Non è insomma solo un racconto popolare, così come non è solo una favola innocente la leggenda della donazione di Costantino in base alla quale il vescovo romano ha rivendicato i confini dello Stato Pontificio per ottocento anni. Nel caso del trentino Romedio il livello di realtà nella leggenda va inquadrato nel più complesso quadro storico dei vescovi-conti, da contestualizzare in quel processo politico ed economico che porterà prima alle sanguinose lotte fra papato e impero, poi alle guerre di religione e alle rivolte contadine fra XV e XVII secolo. Se l’indagine storica sul racconto popolare è preclusa dalla mancanza di fonti definitive, la verità risolve nella scelta e in ultima analisi, nel prendere parte a un dibattito che avviene qui e ora intorno a temi quanto mai reali, come il rapporto fra clero e istituzioni, la laicità dello stato e così via. Nel racconto leggendario sono presenti diversi livelli di realtà secondaria. In questo senso diremo che pur non essendo storiografico il contenuto della storia, lo sono però le istanze che questa mette più o meno implicitamente in discussione.
Mito e dogma
Quando un racconto leggendario perde la sua connotazione locale per diffondersi tra comunità molto distanti fra loro nel tempo e nello spazio, ma soprattutto quando intorno al suo contenuto viene a svilupparsi un rituale condiviso, quindi un’elite che amministra il culto in luoghi deputati come templi, luoghi di pellegrinaggio, chiese, allora non siamo più di fronte a una leggenda, ma a un mito o un dogma religioso. In quel caso, pur non essendovi fonti documentarie o testimonianze dirette, il problema della verità viene risolto attraverso un salto ideologico, una prescrizione del modo più o meno corretto di raccontarlo e di praticarne il culto. L’ossessione per la verità può dar luogo a dispute, processi, condanne, scontri, massacri, guerre di religione. Nel repertorio dei cantastorie non mancano componimenti a carattere religioso, non necessariamente realizzati per vocazione del poeta medesimo, ma più spesso su commissione dei santuari per divulgare il racconto nel modo in cui l’istituzione desidera che si venga ad affermare. E’ il caso del santuario di Bocca de Rio nel bolognese, la cui leggenda aurea è stata composta in ottava rima da un cantastorie, e di molti altri luoghi deputati al culto che si fondano su narrazioni popolari divulgate nelle fiere e nei mercati dai cantori di piazza, nelle riunioni conviviali o dai narratori di comunità. Inutile dire che anche in questo caso nessuno al mondo potrà mai confermare da un punto di vista scientifico e documentario che il tale miracolo sia realmente da attribuirsi all’intervento di un’entità oltre-mondana, l’atto di fede è ‘arbitriario’ nel senso biblico del libero arbitrio. Inutile dire che il racconto viene invocato in rapporto a eventi o situazioni reali: miti di fondazione, titolarità di beni o proprietà, legittimità di un titolo, di un potere ideologico o temporale, in altre parole anche là dove il contenuto della narrazione sia indeterminato e non verificato, va a mettere in discussione istanze reali cui il racconto rimanda.
Invenzione
L’ultimo livello di realtà nella narrazione popolare è la favola, ovvero l’invenzione narrativa consapevole. Personaggi immaginari coinvolti in azioni che non si presume si siano mai svolte realmente in nessun luogo. Principesse, cavalieri, animali inesistenti. Come la polemica fra Propp e Levi-Strauss a suo tempo ha confermato, molti di quei racconti sono stati oggetto di culti religiosi poi decaduti o evoluti in altro. Del mito originario o del dogma, non rimane che un racconto tramandato in forme sempre diverse combinando spesso più motivi tra loro e improvvisando al limite del grottesco e dell’inverosimile. E’ il caso di molte fiabe, ma anche di personaggi come le maschere della commedia dell’arte, i burattini, la letteratura fantastica. Sebbene questo sia il livello di realtà più lontano dal senso comune e dalla cronaca dei fatti, il più consapevole della propria natura illusoria, dichiaratamente inventato e quindi in teoria per definizione ‘irreale’, ciò nonostante le narrazioni di questo livello sono per lo più associate a un contenuto sapienziale, come può esserlo una morale più o meno dichiarata, un insegnamento didattico, l’esemplificazione d’un proverbio, un messaggio di propaganda, una denuncia sociale. Basti pensare alle favole di Esopo e Fedro, che notoriamente usavano le loro storie come allegorie d’una realtà che non potevano criticare in modo aperto ed esplicito per via della loro condizione servile, ma sulla quale avevano ottenuto dai sacerdoti il diritto a esprimere un parere in modo indiretto, implicito. Così la commedia dell’arte e il teatro dei burattini furono spesso usati come strumento per fare della satira su temi di pubblico interesse. Anche in questo caso dunque, l’immaginazione rimanda alla realtà pur nella più surreale delle sue manifestazioni. Ognuno dei quattro livelli rivendica un collegamento con una ‘verità’ da non ricercarsi sempre nella trama, nei personaggi o nello scenario, ma nella consapevolezza che il ruolo del cantastorie è prendere confidenza con i vari livelli, per trasmettere un contenuto che quello si, è talmente reale da sembrare talvolta più vero del vero.
Narrare la storia
Sappiamo bene che la storia viene scritta sempre dai vincitori, il potere ha bisogno di narratori come ogni narratore è l’espressione d’un potere e risente delle tensioni, dei conflitti sociali. Sembra quasi un’ovvietà ripeterlo. Nella prospettiva da cui siamo partiti, la narrazione popolare in chiave non storiografica, possiamo dire che il cantastorie, avendo preso confidenza con un repertorio che attraversa i vari livelli di realtà, è sempre al suo tempo che si rivolge portando un contenuto sapienziale, una critica più o meno velata alla società, un insegnamento etico o morale trasmesso alle persone che lo ascoltano nell’hic et nunc del rituale narrativo. In questo senso, e solo in questo senso, le storie possono considerarsi, come diceva Italo Calvino, un catalogo dei destini che si danno a un uomo e una donna.