La leggenda di Beppe Maniglia. Memorie d’un saltimbanco.

IL FIGLIO DELLA SIRENA UBRIACA

E’ un fior di marcantonio settantenne col quadricipite unto d’olio e la pupilla dilatata, suona in piedi sul suo bizzoso puledro a due ruote nero come un diavolo dell’inferno, il cocchio di Tutankamon rutilante d’oro e lapislazzuli; lo circonda un manipolo di fedelissimi che ricordano ancora quando faceva scoppiare le borse dell’acqua calda gonfiandole col fiato. Polmoni d’acciaio, magneti rotanti contro le flotte di Vega! Sinistre leggende raccontano del giorno in cui venne partorito là in piazza, da una sirena scolpita nella pietra col ghiaccio sulle poppe: la fontana del Nettuno era gelata come le montagne d’Hyperborea, davanti alla fortezza che fu prigione di Re Enzo appena qualche turista e i soliti fidanzatini si davano appuntamento. Lo videro emergere dalle acque già adulto nudo e possente come un bronzo di Riace, al posto del tridente portava una cetra argentata di probabile fattura atlantidea, che non emetteva suoni udibili dall’orecchio umano.

Dicono che per l’occasione il cantastorie Piazza Marino. passando casualmente gli avesse regalato la sua motocicletta, proprio quella su cui trent’anni prima aveva percorso in lungo e in largo l’Emilia Romagna insieme al fratello Piero, suonando nei mercati della frutta. Beppe Maniglia rifiutò il dono con una smorfia di sdegno, sputando in terra e bofonchiando fra sé: “Ma chi è questo, cosa vuole?”. Una nuvola scese dal cielo per benedirlo, cherubini svolazzavano intorno suonando flauti, arpe, cembali e violini, qualcuno giura d’aver sentito un canto risuonare e le campane di San Petronio esibirsi in una boreale cover di Mike Olfield e tutti i buskers nel circondario portargli in dono stravaganti profumi d’Oriente, una crema antiodorante e una cagnetta di birra. Quando la nube dissolse egli riapparve in sella a una moto Harley nuovissima, con la giacca in pelle slacciata fin sotto lo sterno, l’amplificatore potente e una ricca discografia di successi pronti all’uso. Non disse una parola ma accese l’impianto voce, imbracciò lo strumento e senza nemmeno bisogno di suonarlo se ne stette immobile qualche ora in posa per i fotografi.

CHITARRA VAGABONDA

Per me era il secondo giorno in piazza, di lui non m’ero accorto e ingenuamente mi fermai sotto l’orologio del Municipio. Me lo ritrovai subito davanti, scrutandomi con aria diffidente masticava una gomma americana. “Ah-à!”. Suonavo una vecchia chitarra corde in budello e la cassa in palissandro, la stessa che da bambino vedevo appesa al muro e non resistevo alla tentazione di pizzicarla sognando gli onori delle sale da concerto. Beppe Maniglia scatarrò di nuovo a quaranta centimetri dai miei piedi e scuotendo più volte i riccioli biondi mi spiegò nel dettaglio la sua complessa teoria della chitarrina, esposta con memorabile sintesi: “T’ha un bel curàz!”. Salutò e sinuosamente ancheggiando col petto in fuori tornò alla sua motocicletta;  poi alzò il volume, attaccò il distorsore a manetta ed eseguì un complicato assolo che dev’essersi udito fino alla stazione delle ferrovie, perché due persone affiancate non avrebbero potuto parlarsi tra loro. Il secondo giorno, un disastro ecologico forse peggio del primo. Col mio reperto di famiglia in spalla percorro in dondolante mestizia il portico dell’Archiginnasio, le Torri m’infilo tra i vicoli dell’università: il mercatino dei suonatori lo trovavi là in fondo all’incrocio con San Vitale, non avevo scelta pensai, le nozze coi fichi non si fanno.

Presto mi accorsi che le varianti in catalogo erano superiori alla mia limitata comprensione delle effettive qualità, dopo un quarto d’ora mi girava la testa… Come dire tanta scelta, nessuna scelta. Del resto non è come un violino, il principe ereditario che non ha più niente dimostrare; lei poverina era nata cortigiana, prima del secolo romantico nessuno si sarebbe mai sognato di farne uno strumento solista e d’allora è tutta una ricerca per darle un tono. Gl’intenditori ne collezionano per ogni stagione prima d’uscire pensano, “Oggi che chitarra mi metto?”. Non potevo permettermi il parco macchine di Bresnev, dovevo scegliere un solo modello che potesse riassumerli tutti all’occorrenza: non sia mai un bel giorno ti svegli e vuoi darti alla quadriglia mimetica, al punk semitico, al rock diabetico… Se ogni volta devi cambiare strumento è finita prima di cominciare! Mi barricai in bottega e passai alcune settimane a provare le chitarrine ancora illibate, finché la scelta non divenne conseguente. Inevitabile. Vinse il jazz, inutile dirlo. Un po’ che Bologna era sempre stata all’avanguardia nel genere, un po’ che per me rappresentava la scienza dell’arte, l’antico del moderno, il pop del folk, il blues del rock. Quella là, grazie! Nera che non hai problemi ad abbinare i vestiti. Mai tornato sulla scelta fatta, per vent’anni canti di chiesa, swing e lambada o psichedelia spinta sempre con lei, la mia chitarrina

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