Delitto orrendo nella casa del bosco
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La Strega Mora
Il Boia dell’Alpe n.5
Thriller italiano
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Nota dell’editore. Il manoscritto nelle pagine che seguono presenta una calligrafia più regolare, non vi sono strappi, tagli o parti mancanti. L’architetto ha sottolineato alcune parole che evidentemente ritiene di particolare interesse, al momento me ne sfugge il motivo e d’altra parte lui non si fa vedere in paese da qualche giorno, per cui dubito di potergli chiedere maggiori delucidazioni. Riporto lo scritto così come raccolto dalla testimonianza di Erminia Garganelli, una donna di cui non si ha più notizia da tempo. Segnalo in corsivo le parole sottolineate.
Il sole alto nel cielo mi scalda la mano attraverso il vetro, buona anche la luminosità. Quelle belve sanguinarie non si sono viste ancora, rimango nascosta nella casa disabitata, tutt’intorno un muro di neve si arrampica fin quasi al secondo piano. Tengo rapporto di quanto accaduto nei giorni scorsi perché ognuno deve sapere come si svolsero i fatti. Sembra una favola cantata. Sono indiziata per omicidio, dicono di avermi portata in caserma però il tragitto non sono in grado di ricostruirlo, avevo gli occhi bendati. Non so nemmeno chi siano veramente gli uomini dietro l’uniforme perché non l’ho mai visti prima, l’elicottero non presentava segni di riconoscimento particolari. Potrei essere ovunque e in nessun luogo. Spiego loro per filo e per segno la drammatica disavventura: le impronte nella neve che portano all’abitazione di Anacleto Fascina, la suonatrice di mandolino che m’accompagna fin là, il corpo senza vita del povero boscaiolo; poi la fuga attraverso il bosco, le diaboliche voci che mi chiamano dalle siepi senza mostrare i loro volti, l’incontro con le forze dell’ordine e il ritorno sul luogo del delitto. Racconto d’aver visto un uomo là disteso nella pozza di sangue: non una donna insisto, era un uomo. Le mani me le sono sporcate nel rialzarmi, dopo un mancamento dovuto all’orrore innanzi al terrificante spettacolo. Ho perso di vista la ragazza, poi me la sono ritrovata inspiegabilmente al posto del boscaiolo, stessa morte atroce. Non so dire come sia accaduto, ma senz’altro dev’essere stato in quel breve lasso di tempo fra la mia corsa nel bosco e il sopralluogo di poco successivo.
“Ma allora è proprio una fissazione questa del taglialegna. Se lei si ostina sarò costretto a denunciarla per simulazione di reato!”, risponde allora il maresciallo passandosi una mano fra i lunghi capelli arruffati, non vuole credermi. Non scherza. Mostra un fascicolo in cui si riportano i verbali d’un suicidio avvenuto sei mesi prima, l’han trovato appeso al ramo con una lettera firmata sul tavolo della cucina, proprio quella stessa cucina in cui ho visto la tavola apparecchiata e la stufa accesa. Perché si fosse ammazzato non l’ha mai chiarito nessuno, pare avesse dei problemi economici, valli a capire i depressi. Un gesto disperato, ora il suo corpo è sotterrato da un pezzo. Il giovanotto che mi tiene sotto tiro sta sudando, gli trema la mano. “Allora, mi vuole spiegare che è successo al prato della biscia?”. Ripeto ancora una volta la mia versione dei fatti con un senso di impotenza, quasi piangente, quello in piedi nervoso mordendosi il palmo della mano pronuncia una serie nutrita d’improperi in un dialetto per me incomprensibile. Non so cosa farci, più che dirgli la verità. “Anacleto Fascina s’è impiccato lo scorso autunno” sbotta allora il militare, col tono furente: “Non vorrà mica dirmi che i morti camminano da soli!”. Come dargli torto? Vorrei uscire da quella stanza, trovare una soluzione ragionevole al mistero di cui mi trovo involontaria protagonista, ma temo d’innervosire l’uomo colla pistola. In quel momento un rumore sulla mia destra cattura l’attenzione dei presenti, è un vetro infranto. Qualcuno dall’esterno ha lanciato rumorosi petardi, un fuoco di quelli che scoppiano alla mezzanotte nelle feste grosse; la miccia solleva una nuvola fumante dall’odore dolciastro e una girandola di scintille colorate, in pochi secondi l’aria n’è satura, non si respira più. In preda al panico le guardie fuggono dalla stanza, lasciandomi ammanettata alla sedia senza potermi muovere. Quando si dice la virtù, coi tempi che corrono un banale fischiabotto può mandar nel pallone l’esercito, han paura delle loro stesse ombre. Non vedo più nulla. Il vapore tossico brucia la gola sento le forze mancarmi, ricordo solo d’essermi accasciata priva di sensi.
“L’han trovato appeso al ramo con una
lettera in cucina, proprio quella stessa
di cui ho visto la tavola apparecchiata e
la stufa accesa. Perché si fosse ammazzato
Non l’ha mai capito nessuno. Valli a
capire i depressi”.
Difficile dire quanto tempo sia passato. Mi risveglio distesa in un letto caldo, berretto di lana calato sulla fronte; dev’essere una casa privata. Mobilia semplice, stufa a legna col bollitore sopra, in mezzo al piccolo tavolo tondo ricoperto da una tovaglia ricamata in oro all’uncinetto, il vaso con dentro una composizione di fiori secchi intrecciati. C’è anche un cane, disteso al mio fianco sul tappeto. Sono molto stanca, non riesco ad alzarmi da sola; mi lascio andare a una piacevole alternanza tra veglia e sonno finché al calar del sole sento rigirar le chiavi nella serratura; sulle prime fatico a distinguere la figura femminile che si staglia contro la finestra. S’accendono tre candele, due occhi azzurri e profondi mi scrutano dentro l’anima con un ampio sorriso, argento nei capelli, carnagione scura. Riconosco in lei il volto dell’anziana Veneranda Tortello, vedova Bonvino. L’ho sempre avuta in poca simpatia per quelle volgarità che non risparmia a nessuno, non s’addicono a una brava donna. Dicono possieda la sapienza delle donne antiche, una scottatura da curare, uno sfogo sulla pelle, un’arlìa da scongiurare, vengon tutti da lei perché conosce le preghiere buone, coll’acqua e l’olio in testa può dirti se qualcuno t’ha dato il malocchio. Non ho mai creduto a queste cose, però se mi trovo nel suo letto un motivo dev’esserci. Non mi dispiacerebbe saperlo. “Siamo sveglie, vedo!”. Mi dice, accatastando vicino al fuoco una bracciata di legna; slaccia i pesanti scarponi, siede accanto a me sulla poltrona in treccia di salice. “Dormito bene?”. La guardo fra il sospettoso e il trasognato, chiedendomi se tra il fumo colorato dei petardi e quegli occhi trasparenti come l’acqua possa esservi qualche relazione. Per quale motivo ha scelto di liberarmi? Sempre che sia davvero libera di andarmene da qui. Mentre queste domande m’affollano la mente, Veneranda apparecchia la tavola. “Venite pure che v’aiuto ad alzarvi. Così e poi così… Andiamo, un passo alla volta. Son qui per aiutarvi”. Per il momento non posso fare altro che assecondarla.
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Laureato al Dams di Bologna con una tesi sulla narrazione, Federico Berti è cantantautore, polistrumentista, uomo orchestra, pubblica romanzi, poesie, canzoni. “Il Boia dell’Alpe” è ambientato nel paese di Monghidoro sull’Appennino Bolognese, dove risiede stabilmente dal 2001.
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Romanzo di Federico Berti
ISBN 9788822881595.
Un misterioso manoscritto, le memorie di una donna scomparsa nel bosco durante una tormenta di neve. Un boscaiolo massacrato a colpi di scure, un’inquietante festa di carnevale. Giallo noir ambientato a Bologna.