Basile va all’inferno. Napoli sotterranea
Basile va all’inferno
Napoli sotterranea
Tratto da F. Berti
“Le vie delle fiabe.
L’informazione è narrazione
Dopo aver analizzato i molteplici rimandi fra immaginazione e realtà, narrazione popolare, cronache e leggende, fra il centro Europa nel secolo romantico e nella Francia tra le guerre di religione e la grande rivoluzione borghese, avendo chiaro in mente il problema del limite sottile che separa l’indagine indiziaria dal delirio paranoico, la ipotesi critica dalla pura illazione, possiamo tornare in Italia, nel Regno di Napoli, per verificare che quanto evidenziato in precedenza venga riconfermato dall’osservazione ‘sul campo’ rispetto all’opera di Giovan Battista Basile. Prendiamo dunque in mano il testo, partiamo dalla prima indicazione geografica esplicita e inequivocabile, un paio di scarpe comode al piede e mettiamoci in
cammino seguendo le indicazioni date con semplicità dalla narrazione, mettendoci per quanto possibile nei panni di un lettore del XVII secolo.
La prima favola del Pentamerone comincia a mezza giornata di cammino da Posillipo, nel paese di Marigliano oggi conosciuto in particolare per le sparatorie dei camorristi e i veleni delle discariche abusive, nel secolo del Basile una tranquilla cittadina da poche migliaia di abitanti nella campagna napoletana. Sorge su uno strato di roccia tufacea in cui si aprono moltissime grotte, elemento caratteristico nel paesaggio intorno all’area vesuviana; si attribuisce la formazione di quelle rocce a depositi di materiali scagliati in aria a grandi altezze e poi consolidatisi a terra al tempo della grande eruzione che distrusse Pompei. Non solo campagne, anche insediamenti umani vennero sepolti dalle
polveri; prima della catastrofe la zona di Marigliano era abitata da famiglie benestanti, lo strato dei sedimenti coprì una regione tutt’altro che misera sotto la quale di tanto in tanto viene scoperta e spesso nascosta qualche nuova area archeologica.
Tutto il territorio è interessato dal fenomeno, leggendari i tesori di cui si favoleggia nella cosiddetta Napoli sotterranea. Ma non è tanto la roccia ad attirare la nostra attenzione, quanto le cavità che vi si aprono: un sistema di architetture ipogee che si estendono per migliaia di chilometri sotto la città, alcune delle quali vengono fatte risalire alle antiche civiltà preistoriche. Su questo argomento vale la pena soffermarsi e andare un po’ più a fondo, per calarsi nella mentalità di chi nel XVII secolo per la prima volta dovette leggere la prima fiaba del Pentamerone, quali erano i punti di riferimento conosciuti a tutti. Le grotte si aprono nel tufo praticamente ovunque nel territorio della provincia, alcune rivestono solo un’importanza locale e vengono tuttora usate come abitazioni, garages, magazzini, tavernette, altre sono scenario di ritrovi conviviali, feste danzanti, rituali tra il sacro e il profano, altre ancora sono invece luoghi monumentali, archeologici o consacrati al culto religioso. Non solo a Marigliano.
Una di quelle ospita ad esempio il Cimitero delle Fontanelle che contiene l’ossario degli appestati ed è ancora oggetto di devozione per l’anima pia che adotta un teschio, lo tiene pulito, gli accende la candela sperando così d’ingraziarsi lo spirito dell’ignoto defunto. Non un mito decaduto né un rituale arcaico, primitivo o ‘pagano’, ma una devozione quanto mai viva e sentita. Più complesso è il caso d’un altro tempio ipogeo conosciuto come l’antro della Sibilla, che si estende con le sue gallerie scavate nella roccia e non è tutto quanto visitabile, lo scenario è quello descritto da Virgilio nell’Eneide in cui l’eroe troiano scende nel regno dei morti per incontrare la sacerdotessa di Apollo. Questo tempio antico è stato riscoperto negli anni ’30 del secolo scorso, dopo un lungo periodo di abbandono iniziato presumibilmente con lo spopolamento di Cuma nel XIII secolo; l’oscurità e l’isolamento delle grotte offrono ancora oggi riparo adattività illecite e protezione a preziosi bottini ricavati dalle assai poco gloriose imprese di ladri, truffatori, quando non alla prostituzione più o meno rituale. Simile all’antro della Sibilla è il più famoso fra tutti questi siti scavati nella roccia, la Crypta Neapolitana famosa nel mondo per la festa di Piedigrotta che vi si svolge ogni anno, a differenza dell’antro cumano rimasta luogo di culto praticamente ininterrotto fin dall’antichità.
Se c’è una cosa che a Napoli non manca insomma sono le grotte, questa in particolare è un simbolo della città nel mondo, veniva usata anticamente dai Romani come tempio di Venere e Priapo nel quale avevano luogo rituali amorosi; non dobbiamo dimenticare che al tempo di Lucio Apuleio e dell’Asino d’oro il culto di Iside, dea dai mille nomi che i latini chiamavano Venere, era tra i più diffusi nella penisola, più ancora del cristianesimo. Con la distruzione dei templi pagani il complesso divenne un luogo sacro alla Vergine di Piedigrotta, la famosa Madonna che ‘perse la scarpetta’ come Cenerentola. Ne ha parlato diffusamente De Simone, inutile dilungarsi rimandiamo al suo monumentale lavoro di ricerca. Torniamo alla Crypta, nel medioevo si diffuse la leggenda che in un colombario antico fosse ospitata la tomba di Virgilio, considerato dai napoletani molto più d’un poeta: mago, taumaturgo, dispensatore di oracoli, secondo la tradizione lui stesso aveva costruito in una sola notte la galleria dove ancora oggi si svolgono le processioni dei carri, queste leggende erano raccolte in un testo anonimo del XIV secolo, la Cronaca di
Partenope.
Anche nella Divina Commedia il vate mantovano è rappresentato come una guida attraverso gli inferi, siamo più o meno nel periodo in cui si costruiva la chiesetta della Vergine, gli stessi anni in cui avvenne la profanazione della tomba virgiliana da parte del cattolicissimo Ruggero d’Altavilla, che incontrò una fierissima resistenza nel popolo e nelle autorità cittadine. Le fonti della querelle virgiliana erano senz’altro note al Basile, ne parlano anche il Petrarca e il Boccaccio. Per quanto ne sappiamo ancora oggi la Crypta Neapolitana è talvolta violata dalle coppie di innamorati e fino agli anni ’70 del XX secolo tutto il parco circostante era luogo d’incontro, il rituale amoroso descritto nella favola di Amore e Psiche raccontata da Apuleio è in poche parole vivo nella mentalità della gente che vive in quei luoghi, sono gli stessi napoletani a insegnarci che nelle feste di Piedigrotta vengono ancora tollerate (con discrezione) licenziosità a vario titolo, motivo di scandalo per qualcuno si e per qualcuno no.
Il culto medievale di Virgilio poeta vate, guardiano del tempio della Fortuna e guida attraverso il regno dei morti, non s’è mai interrotto fino all’epoca del Basile. Lecito, o illecito che fosse. Pubblico, o privato. Un demone, se lo guardiamo cogli occhi del buon cristiano. Un diavolo, un mago, un orco. La questione virgiliana si fa particolarmente critica se la osserviamo nel periodo della Controriforma: ambientare una storia a Napoli in una grotta lavorata nella pomice, non è come ambientarla nella fantastica grotta degli elfi, o in casa Flinstones. E l’orco del Basile non è un troll. Date queste premesse, torniamo alla prima favola del Pentamerone e immaginiamo di leggerla verso la metà del XVII secolo in piena restaurazione pontificia, nella regione d’Italia che più d’ogni altra ha resistito alle pressioni del clero; ci racconta la storia un giullare, un cantore ambulante, o l’impariamo da un libretto illustrato. Un giovane sempliciotto scappa da casa per fuggire alle bastonate di sua madre, dopo aver combinato dei guai si mette in cammino. Dopo circa mezza giornata verso l’ora del tramonto in cui s’accendono le botteghe della luna arriva in un luogo descritto come un’alta montagna con la cima tra le nuvole, presso le radici d’un grandissimo pioppo ai piedi di una grotta lavorata nella pomice sta un orco, creatura non umana, che gli chiede di lavorare per lui e lo ricompensa donandogli degli oggetti magici con i quali procurarsi tesori inestimabili.
Le fiabe sono miti decaduti? Non questa, si direbbe. L’unico riferimento geografico che l’autore lascia intendere è il paese di Marigliano, da dove si vede una sola montagna col ‘cappello’ di nuvole (il Vesuvio quando ha la vetta avvolta dalle nuvole si dice ancora oggi che ‘porta il cappello’); a mezza giornata di cammino, meno di trenta chilometri sulla strada per quella montagna, si trovano la tomba virgiliana e la villa del mago. Questo chi abita a Napoli lo dà per scontato, non ha bisogno d’impararlo. La favola parla di un orco, non dice altro. Il ragionamento che abbiamo fatto fin qui non contiene chissà quali rivelazioni sull’opera del Basile, non segue il filo dell’erudizione ma se ne può controllare il contenuto con qualche semplice verifica enciclopedica (e almeno un viaggio a Napoli). L’ultima domanda è quale sia la conclusione, dov’è che vogliamo arrivare. Trattandosi di un racconto fantastico non possiamo arrivare altro che in fondo alla storia, il messaggio o la morale per cosi dire. Chiara, esplicita, disarmante: Dio protegge i matti e i bambini.
Divino responso oracolare scacciato dalla porta e rientrato dalla finestra, come se il mago, l’orco e l’asino che caca preziosi, fossero un dono del cielo. Questo il messaggio che lascia Basile al narratore del XVII secolo, le grotte lavorate nella pomice (non una grotta in particolare) nascondono un tesoro inestimabile perché vi abitano delle potenze, se qualcuno dice che queste potenze sono cattive non non dobbiamo credergli perché l’orco è in fondo un buon diavolo, mandato da Dio per la fortuna dei bambini e dei pazzi, o di chi presta loro ascolto. Nel pensare queste cose non so perché mi torna in mente che il Pentamerone, in quei secoli di persecuzioni religiose violente, fu pubblicato solo postumo e con uno pseudonimo tratto dal suo nome anagrammato. Il conte era uno che sapeva stare al mondo. Tornando al nostro lungo viaggio attraverso le vie delle fiabe tra le Germania dei fratelli Grimm, la Francia di Perrault e il Regno di Napoli del Basile, ancora una volta abbiamo ritrovato fra le pieghe del racconto dei riferimenti a un culto religioso ‘illicito’, che a differenza dei due casi successivi, non si può considerare un mito ‘decaduto’, secondo la definizione che Propp diede ai racconti di magia. Al contrario, una parte delle strutture mentali e culturali che riportano a quel mito sono tuttora attive nelle tradizioni popolari e nelle usanze locali, con l’aggravante della persecuzione religiosa al tempo in cui il Pentamerone iniziò a circolare tra giullari, saltimbanchi e cantastorie. A questo punto possiamo dire che la triangolazione da cui siamo partiti va a inscriversi perfettamente nel cerchio, ovvero l’origine delle fiabe non è da ricercarsi nel folklore nazionale ma al contrario, negli usi e costumi, nella devozione popolare e nelle controversie religiose che talvolta intervengono a disciplinarla. Confini che non basta un filo spinato a tracciare. Non rimane a questo punto che lasciarci alle spalle gli autori della fiaba letteraria e tornare al nostro tempo: qual’è la narrazione del Pentamerone offerta dal cinema di Matteo Garrone? Se osserviamo in trasparenza il suo Racconto dei racconti, cosa vediamo? Ne parleremo nei prossimi capitoli.