Non chiamiamola ‘Intelligenza Artificiale’.

Non chiamiamola
Intelligenza Artificiale

Articolo di Federico Berti

Le macchine ragionano per induzione, non per intuizione: si servono di modelli che sono in grado di combinare a un livello di complessità altissimo, ma restano pur sempre modelli, templates. Dobbiamo distinguere tra intelligenza e modellizzazione: smettiamola una buona volta di chiamarla intelligenza artificiale.

I sistemi di machine learning sono pensati per apprendere da grandi volumi di dati e migliorare le loro prestazioni nel tempo, ma non possono agire al di fuori dei parametri stabiliti dagli esseri umani. La loro capacità di generare output dipende dalla qualità e dalla quantità dei dati utilizzati durante il processo di addestramento.

I sistemi di modellizzazione non comprendono il contesto o il significato delle informazioni come farebbe un essere umano, ma seguono regole e schemi matematici senza una vera comprensione del contenuto, il che significa che le loro decisioni sono basate su correlazioni statistiche piuttosto che su una cognizione consapevole.

Appurato che le cosiddette intelligenze artificiali nulla intelligono, ma che si comportano piuttosto come sistemi di modellizzazione, ne consegue una domanda quanto mai urgente: perché si continua a chiamarla IA (all’italiana) o AI (all’inglese)?

Intanto il termine non è nuovo, ma risale al 1956 e viene attribuito a un discorso di John McCarthy che durante la conferenza di Dartmouth manifestò l’intento di attrarre attenzione e finanziamenti per la ricerca in questo campo (allora) emergente: l’intelligenza delle macchine era solo un obiettivo da porsi nel lungo termine, non un risultato acquisito. Dare per conseguito il risultato, quando sappiamo non esserlo, è scorretto.

Chiamare intelligenze artificiali i sistemi di modellizzazione, finisce col creare false aspettative (lo schiavetto che scrive gratis al posto tuo) o allarmismi (l’apocalisse delle arti); confondere gli utenti su quel che possono realmente aspettarsi dagli strumenti che usano, è una comunicazione mendace.

Volendo porre un freno all’incomprensione del fenomeno, si dovrebbe pianificare e porre in atto un’educazione diffusa intorno alle reali capacità e limitazioni di questi sistemi, nella prospettiva indicata già da McLuhan di responsabilizzare l’utente: maggiore consapevolezza, può ridimensionare sia le aspettative che i timori infondati.

L’idea che l’uso di modelli, formule di ripetizione e motivi ricorrenti, sia incompatibile con la produzione di buona letteratura è una convinzione ridicola e fuorviante. In realtà, la letteratura di ogni epoca è stata influenzata da strutture e schemi narrativi.

Fin dai tempi antichi, i sistemi di modellizzazione hanno svolto un ruolo cruciale nella letteratura. Gli omeridi ad esempio, hanno utilizzato temi e strutture modellizzati nelle loro ‘improvvisazioni su tema’, da cui vennero poi redatte le edizioni scritte.

Vorrei spingermi oltre, affermando che i modelli non servono solo a semplificare, ma fungono anzi a loro volta da catalizzatori per l’innovazione: gli stessi modernisti del ‘secolo breve’, pionieri della sperimentazione più estrema come James Joyce, Virginia Woolf, Marcel Proust, il nostro Italo Svevo, rielaborarono a loro volta dei modelli, diversi da quelli tradizionali, ma pur sempre dei modelli.

Quel che desta preoccupazione è l’impiego passivo e massivo nell’uso dei sistemi di modellizzazione, dove il contenuto coincide col modello. Non è un problema che si pone da adesso, però: tante collane editoriali sono state impostate per decenni proprio sul lavoro dei ghost writers che compilano dei veri e propri ‘cruciverba’ letterari (non saprei come altro definirli). Quando la scrittura si esaurisce nel template l’autore scompare, non è più un compositore ma uno ‘schiavetto’, per l’appunto: lui è schiavo del modello, non il contrario.

Il problema purtroppo non è da ricercarsi nello strumento tecnologico, che ha velocizzato e articolato la combinatoria dei modelli narrativi, ma piuttosto nella diffusa tendenza a considerare il modello come un punto di arrivo e non come un punto di partenza, che è poi la promessa mendace di tante piattaforme: il famoso robota (‘schiavo’) che scrive per te. Questo tipo di approccio porta a generare contenuti identici a quelli prodotti da milioni di altri utenti, dove l’autore scompare come uno spettro (‘ghost’), risucchiato dalla machina come il Chaplin dei Tempi moderni.

In conclusione, smettiamola di chiamarle intelligenze artificiali, nome che porta con sé tutto un apparato di concezioni distorte e misinterpretazioni, intorno ai sistemi di modellizzazione. Sono strumenti che potenziano e velocizzano l’analisi, la combinatoria degli elementi, per questo motivo noi dobbiamo imparare a usarli consapevolmente o siamo destinati comunque a scomparire nella loro ombra.

In conclusione, l’uso degli strumenti di modellizzazione può aumentare il rumore di fondo della pessima letteratura, che esiste da quando l’industria dell’editoria si è fatta metastasi di spazzatura. Nello stesso stesso tempo però, se usati correttamente (ovvero smettendo di cercare in essi delle risposte, ma usandoli piuttosto per potenziare le nostre domande), allora non c’è motivo di temerli.

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