La Befana non è una strega. L’Epifania come apparizione
La Befana non è una strega
L’Epifania come apparizione
Tratto da F. Berti, Le vie delle fiabe
Nelle prime pagine di questo libro avevamo infilato il dito nella piaga, come si suol dire, delle atrocità che riecheggiavano implicitamente sia i racconti dei fratelli Grimm, sia quelli di Perrault, sia quelli di Giovan Battista Basile, in particolar modo il riverbero d’uno scenario che rimandava inesorabilmente alle guerre di religione attraverso i secoli. Se la nostra analisi è corretta, allora dovremmo poter compiere a ritroso lo stesso percorso anche partendo dalle (cosiddette, o come vedremo, presunte) fiabe ‘moderne’. Prenderemo stavolta in esame un altro classico della narrazione contemporanea, rispetto al quale non si è ancora estinto l’elemento rituale. Mi riferisco al personaggio della Befana, impropriamente considerata solo un’occasione di festa per bambini, alla cui misteriosa figura vengono associati diversi motivi caratteristici della narrazione fiabesca. Il risultato della nostra analisi confermerà quanto detto finora, sollevando il velo di maya ritroveremo nel rogo della vecchia l’ennesimo rimando a realtà che vengono molto prima dell’attuale intrattenimento per ‘piccirille’. Mi sono imbattuto nella leggenda di un’anziana signora che nella notte santa indicò ai Re Magi la via per Betlemme, senza però unirsi a loro seguendoli nell’adorazione di Gesù; essendosi in seguito pentita di quella rinuncia raccolse un sacco pieno di offerte e da allora (si dice) vaga come uno spettro senza pace nel mondo. Come la nonna di Erode, la moglie di Ponzio Pilato, la zia di Barabba, tutti spiriti dell’oltretomba obbligati a fare buone azioni per espiare un peccato commesso in vita, così la Befana. Claudio Corvino ed Erberto Petoia fanno risalire questa leggenda a una fonte scritta del XII secolo, in base alla quale si vuol derivare il nome della Befana da quello dell’Epifania, intesa come la manifestazione del Signore. In realtà il racconto, che si vuole a giustificazione teologica di una tradizione non cattolica, non ha mai conosciuto molta fortuna.
Storici, antropologi, intellettuali, fanno per lo più derivare la figura della Befana da culti precedenti al cristianesimo, rimasti in uso nelle campagne dopo l’editto di Teodosio e incorporati successivamente nella predicazione all’epoca di San Domenico e l’ordine dei predicatori mendicanti: divinità ‘illicite’ come Diana, Vesta, Abùndia, Strènia, Holda, Bertha, Perchta e chissà chi altra, sarebbero confluite nella figura dell’anziana signora, l’antenata portatrice di doni. La manifestazione della Befana veniva intesa nelle culture a trasmissione orale non tanto come una rivelazione della divinità di Gesù, ma piuttosto come un’apparizione a sé stante, una finzione rituale che di religioso, nel senso del monoteismo moderato espressione del cattolicesimo, non aveva niente. Giuseppe Pitré ad esempio racconta che in Sicilia la vecchia prendesse le sembianze di un uccello, di una formica o talora di un’entità invisibile coperta con un lenzuolo: uno spettro insomma, una visione. Apparizione, per l’appunto. Rimando per i dettagli all’articolo di Silvia Ippolito, che riassume e sintetizza studi approfonditi su questo tema. Se prendiamo in considerazione le azioni normalmente attribuite alla Befana, si noterà che sono funzioni assolte in precedenza da altre dinività e spiriti dell’oltretomba: l’augurio di fertilità, la memoria dei trapassati, il ciclo dell’anno, lo scambio dei doni, l’inizio dell’inverno, continuano ad essere parte della tradizione ma le due usanze, quella sacra e quella profana, rimangono sostanzialmente indipendenti l’una dall’altra. Il problema sta nel fatto che l’assimilazione teologica non ha mai trovato riscontro nell’uso popolare.
La vecchia signora nei racconti popolari a viene a volte in sella a un asino, altre volte a piedi, altre ancora cavalcando una scopa o volando come un uccello; può presentare alcune parti zoomorfe, la lingua di fuoco, gli occhi di brace e se violata la sua invisibilità può ferire i bambini con un punteruolo, con i ferri da calza o addirittura portarseli via. Talvolta associata anche agli animali parlanti, richiamando così la tradizione di Sant’Antonio Abate che inaugura il Carnevale, nel racconto rituale è descritta come uno spirito non sempre e non solo benevolo, comunque non umano. Nella realtà la Befana è semplicemente una maschera, possiamo definirla come una pantomima rituale dove il fantoccio o il travestimento apotropaico svolge la funzione di esorcizzare il negativo e lasciarsi alle spalle il passato. La si considera legata alla tessitura, alla filatura, spesso rappresentata con la rocca e il fuso come le Moire greche, divinità che presiedevano al destino degli uomini. In pratica la maschera della Befana raccoglie su di sé attributi che furono delle principali divinità femminili precedenti alla nascita del Salvatore, teatralizzandoli in una pantomima rituale. Inutile dire che il suo simulacro viene in alcune tradizioni processato, mutilato e poi bruciato in piazza, a simboleggiare non soltanto la morte dell’anno appena trascorso e le ceneri da cui nasce il nuovo ciclo della natura, come l’interpretazione ‘alta’ dell’antropologia culturale ripete qualche volta fino allo sfinimento, ma anche uno scenario che ritroviamo nello stesso periodo storico in ben altre pubbliche rappresentazioni, quando sulla catasta di legna venivano immolati corpi reali, di persone in carne e ossa. Il rogo della Vecchia simboleggia anche la repressione di tutto quel che il personaggio della Befana rappresenta agli occhi della religione, le divinità che incarna sottoposte dal tempo di San Domenico al nuovo dogma. Lei che non volle rendere visita al Bambino il giorno in cui nacque, lei che non credette nella venuta del nuovo ordine, sarà condannata a vagabondare e bruciare ogni anno. Non è dunque una strega, ma incarna e simboleggia quel che le donne condannate per stregoneria venivano accusate di adorare. I ‘falsi dei’ del passato.
Fino all’anno mille la religiosità cristiana è rimasta un fenomeno eterogeneo, le usanze dell’animismo non erano state per nulla soppiantate, sebbene si mantenessero sostanzialmente al livello delle tradizioni popolari. Con gli ordini predicatori, dopo la stabilizzazione anche politica ed economica dell’Europa, la classe dirigente del clero si rese conto che il solo modo per tenere sotto controllo quelle manifestazioni della devozione popolare, era appropriarsene, introdurle cioè in un nuovo quadro dottrinale. Si è dunque ricercata una sintesi delle varie divinità femminili, riconfigurandole. Ecco dunque come nasce il racconto dell’anziana signora che indicò ai Re Magi la grotta di Betlemme, con il quale il nuovo personaggio trova un posto legittimo nel quadro teologico legato alle celebrazioni per l’Epifania. Nel leggere tuttavia le considerazioni dei teologi da un lato, quelle dei laici dall’altro, non posso che tornare a un problema sul quale mi son dovuto soffermare più volte in questo lavoro sulla narrazione popolare: di qualsiasi storia si tratti, mito, leggenda o dogma religioso, non la si racconta mai due volte. Cambieranno sempre il contesto, le relazioni tra narratore e uditorio, l’intenzione del racconto, la chiave di lettura, lo stimolo all’azione. Esemplare a questo proposito lo studio di Valentina Pisanty sulle varianti della favola di Cappuccetto Rosso dal XVI secolo in qua, passando attraverso la novella letteraria, il motto di spirito, il racconto didattico, il doppio senso erotico, la figurazione allegorica, la satira politica. Non cambia il ‘tipo’, ma ogni volta che prende vita in una nuova sessione narrativa non risolve mai nello stesso racconto. Così sarà anche per la maschera della Vecchia e le innumerevoli tradizioni locali ad essa legate.
Avevamo affrontato il tema delle metamorfosi narrative in un precedente articolo parlando della presunta origine italiana di alcune fiabe tedesche, applicando lo stesso principio al mito, al dogma e alla liturgia, diremo che non è possibile prendere due volte parte allo stesso rito, nemmeno il più rigoroso monoteismo può sottrarsi al corso del tempo evitando scismi, contrasti interni e movimenti innovatori anzi, si può dire che ogni religione è nata proprio da problemi sorti all’interno di dottrine precedenti. In questo senso diremo allora che non si festeggia mai due volte la stessa Epifania. Una la maschera, infinite le declinazioni. La si può adattare a situazioni completamente diverse, basti pensare alla Befana fascista nata per consolidare l’istituzione dei fasci femminili e il dopolavoro, in aperta competizione con le Befanate rurali ancora negli anni ’30 legate al canto spontaneo e sociale dei movimenti libertari. In conclusione, chi è la Befana? Potrebbe essere chiunque, prende vita sotto una maschera da indossare nella pantomima rituale. Come un racconto popolare prende corpo sulla bocca del narratore. Uomo, donna, bambino, a seconda del momento storico, degli usi locali, dell’intenzione rituale, può assolvere diverse funzioni e prendere anche diverse forme. Quel che accomuna l’infinità varietà delle combinazioni è il fatto di rappresentare l’antenata donatrice, il ricordo dei familiari trapassati, la morte e la rinascita del ciclo naturale che si ripete ogni anno, le divinità femminili che hanno preceduto l’avvento del monoteismo in europa. E’ dunque rivolta non solo ai bambini, ma anche e forse più agli adulti e soprattutto, non è una sola, sono molte. Di sicuro, non una strega.