Scacco matto al giocatore. L’ambigua relazione tra scacchi e follia.
Scacco matto al giocatore.
L’ambigua relazione tra scacchi e follia.
Articolo di Federico Berti
Angelo Germino pubblica nel 2018 un testo di critica letteraria sul tema del nesso tra gioco degli Scacchi e follia1, nel quale analizza tre opere letterarie del Novecento accomunate dall’idea che vi sia una sorta di ‘maledizione della scacchiera’. Vladimir Nabokov, Samuel Beckett, Stefan Zweig, raccontano tre storie diverse in cui la disciplina finisce per tessere una ragnatela in cui il giocatore rimane inviluppato. Il lato oscuro della scacchiera consisterebbe nell’impossessarsi, come un daimon, di chi prova a dominarla. La psicoanalisi del Novecento non ha rilevato una componente propria nel gioco suscettibile di attenzione da questo punto di vista, è piuttosto l’atteggiamento del giocatore a determinarne le modalità di approccio, come in qualsiasi altra attività ludico-ricreativa o didattica: non è in altre parole più probabile che un giocatore di Scacchi sviluppi la sindrome di Fischer, di quanto non lo sia che un ricercatore scientifico sviluppi la sindrome del Faust.
Com’è noto i partecipanti al torneo di Mosca del 1925 vennero sottoposti a test psicometrici in cui manifestarono abilità superiori solo nel calcolo combinatorio, nella capacità di mantenere la concentrazione e nell’elaborazione del pensiero astratto. In compenso alcuni di loro avevano capacità di espressione verbale inferiore alla media, in alcuni lo sviluppo cognitivo risultava in alcuni casi persino leggermente arretrato. Evidentemente non tutti i giocatori sviluppavano facoltà straordinarie giocando, né servivano doti particolari per diventare grandi maestri. Jones propose in uno studio su Morphy del 19302 la sovrapposizione al gioco di un complesso edipico non risolto, formulando che il lato oscuro del gioco non fosse da ricercarsi nella scacchiera, ma nella mente del giocatore.
Reuben Fine nella Psicologia del giocatore di scacchi3 citò una ricerca dell’olandese Adrian de Groot, il quale si era concentrato nel 1938 su una particolare attitudine al cosiddetto ‘problem soving’ rilevata nel processo mentale di numerosi maestri, i quali sembravano accomunati da una modalità di ragionamento che presentava aspetti simili a quella del ricercatore davanti a un quesito scientifico4, in questo senso va interpretato il paragone tra disciplina scacchistica e ricerca, che trovò in Garri Kasparov uno dei più convinti sostenitori. Questa tesi è stata confermata da numerose indagini neuro-cognitive più recenti, nelle quali si prende atto delle conseguenze che livelli di apprendimento superiore possono avere sui processi di ideazione del giocatore5.
Un aspetto di particolare interesse tra quelli rilevati da Fine, è nella sublimazione dell’aggressività che il gioco degli Scacchi impone e che opportunamente incanalata può portare benefici su vari aspetti della vita, non reprimendo ma risolvendo la pulsione: un topos narrativo ricorrente nella letteratura medievale è quello del giocatore che perde la pazienza e manda all’aria la scacchiera. Se mai vi sia davvero una maledizione dunque, secondo Fine dobbiamo ricercarla nella personalità del giocatore: da un lato la prospettiva del superuomo che si manifesta nell’ossessione maniacale, dall’altro l’antieroe che affronta il gioco per quello che è ovvero uno strumento ludico e insieme didattico.
E’ nel profilo dello scacchista eroico, che si inserisce il disturbo del narcisista patologico in cui prevalgono l’aggressività, la sopraffazione, il cinismo, la volontà di potenza di colui che riesce a trovare una ragione della propria vita solo nell’umiliazione dell’avversario, confermando in questo senso la tesi di Jones che associava al gioco una forma latente di sadismo edipico: Staunton, Morphy, Alechin, Fischer, che manifestarono un profilo di questo tipo, hanno espresso ciascuno a suo modo le istanze di una ristretta minoranza, la loro maledizione non si può elevare a principio regolatore, a inesorabile fatalità cui è destinato chiunque affronti la scacchiera. La loro instabilità si sarebbe manifestata in qualsiasi altra attività si fossero cimentati con quella disposizione interiore.
La domanda che dovremmo porre è dunque un’altra: per quale motivo la letteratura è rimasta così affascinata dalla parabola autodistruttiva della minoranza narcisista, elevata a modello per una mitopoiesi della maledizione che non ha portato nulla di buono alla tradizione millenaria di un gioco nato proprio per sviluppare il controllo dell’aggressività? Non era forse più interessante prendere a modello giocatori del tipo ‘antieroico’? Per svolgere questo tipo di indagine, dovremmo prendere le mosse dalle tre opere principali di cui parla Germino nel suo libro, estendendo eventualmente il discorso alle altre che hanno rielaborato il topos narrativo del daimon nella scacchiera.
Note
1 Angelo Germino, Scacchi matti. Analisi di tre folli deliri nel Gioco dei Re, Santelli 2018
2 Ernest Jones, The Problem of Paul Morphy, in: ‘The International Journal o Psychoanalysis, Volk. XII/1, Gennaio 1931.
3 Reuben Fine, La psicologia del giocatore di Scacchi, Milano, Adelphi, 1976
4 Adrian de Groot, Thought and Choice in Chess, Ishi Press, 2016.
5 AA.VV. Sulla scacchiera. Arte e scienza degli scacchi, Parma, Franco Maria Ricci, 2021, “Se le neuroscienze riuscissero a svelare i piani segreti dei giocato-ri, si rivelerebbero uno strumento inestimabile per il gioco, perché vincere a scacchi significa anticipare il pensiero dell’altro giocatore.
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