Arte preistorica e mnemotecnica. L’uso dei segni

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Per sottrarsi al condizionamento della memoria, bisogna esercitare l’arte della memoria

Arte preistorica e
mnemotecnica.
L’uso dei segni.

Articolo di Federico Berti

ABSTRACT. Finora abbiamo parlato della memoria naturale, che fa capo all’esperienza sensibile e consente di richiamare alla mente cose che abbiamo già sperimentato coi nostri sensi.. Se dovessimo tuttavia basarci solo sui dati dell’esperienza sensibile, avremmo sempre bisogno di sperimentare una cosa coi nostri sensi prima di impararla e questo sarebbe un limite. Se vogliamo comunicare ad altri qualcosa di cui non abbiano mai fatto esperienza coi loro sensi, e se vogliamo che gli altri possano capire quello di cui stiamo parlando, abbiamo bisogno dei segni. E’ quello di cui parliamo in questa lezione.

LE PITTURE RUPESTRI

Nelle scorse lezioni siamo partiti dalla reminiscenza diretta o ‘primitiva’, costituita dall’impressione lasciata sul nostro sistema nervoso dalle sollecitazioni dell’esperienza sensibile. Immagini, suoni, odori, sensazioni che in risposta a nuovi stimoli, o in conseguenza di un’attenzione focalizzata, tornano alla coscienza dando l’illusione di rivivere un momento della nostra vita come in teatro. Quello che impareremo adesso è farlo in modo indiretto, attraverso la mediazione di segni per richiamare alla mente le immagini di memoria prodotte naturalmente dalla nostra immaginazione. E’ un procedimento al quale in realtà siamo educati fin da bambini, con l’addestramento alla scrittura alfabetica: cos’altro è infatti l’alfabeto, se non un sistema ordinato di segni dalla combinazione dei quali otteniamo configurazioni visive che richiamano suoni significanti, le parole, alle quale associamo le immagini di memoria primitive?

Imparare fin da bambini a leggere e scrivere consente di acquisire una grande quantità di informazioni senza doverle sperimentare direttamente attraverso i nostri sensi, con un alto livello di approfondimento e una grande precisione, ma la lettura e la scrittura alfabetica ha un costo non indifferente in termini di tempo e disponibilità: là dove infatti una sola immagine richiama alla mente in modo quasi immediato una quantità enorme di contenuti, leggere un libro di duecento, trecento pagine, può richiedere anche diversi giorni. E’ per questo che al linguaggio verbale e alla scrittura alfabetica, noi associamo diversi altri codici: il tono della voce, la gestualità, la prossemica, il movimento, l’immagine, il gesto, il simbolo, il pittogramma, l’ideogramma, il simbolo, strumenti che richiedono meno tempo per essere decodificati anche se non consentono lo stesso livello di precisione e di approfondimento. Due sistemi complementari, non alternativi.

All’uso di questi codici il mnemonista dedica molto tempo e anche noi dovremo soffermarci a lungo per familiarizzare con i vari compendi e repertori. Impareremo come riconoscerli e come sovrapporli alle impressioni della memoria naturale, come disporli in mappe mentali e concettuali ottimizzando il carico di lavoro della nostra mente per recuperare le informazioni che vi associamo, come risolvere il problema della polisemia e le incomprensioni che questa può comportare, come evitare di confondere il segno con la realtà e così via. In questa lezione introduttiva ci soffermeremo sul primo e più elementare dei problemi, l’invenzione del segno in un tempo lontanissimo della storia umana, quarantamila anni prima che fosse elaborato il più antico sistema di scrittura da noi riconosciuto. Un tempo che si colloca alla fine del Paleolitico, in quel vago alone di preistoria che vide convivere per qualche millennio l’Homo Sapiens e il Neanderthalensis.

Qualcuno potrebbe meravigliarsi di un salto all’indietro così lontano nel tempo, forse perché la nostra concezione di una mnemotecnica utilitaristica, individualistica e competitiva insegnata ai rampolli dell’aristocrazia romana è basata su pregiudizi e luoghi comuni difficili da superare. Sentiamo ad esempio spesso ripetere che la mnemotecnica fu inventata dai Greci, come vedremo questa è solo una semplificazione. In realtà per quanto ne sappiamo i Greci erano perfettamente consapevoli di non averla inventata dal nulla quell’arte, ma di averne solo preso coscienza rielaborando, perfezionando e affinando strumenti di cui la specie umana si serviva da ben prima di Pitagora e Simonide. Non per niente il poeta Esiodo aveva posto la reminiscenza sotto il presidio di Mnemosine figlia di Urano e Gea, una divinità che si riteneva precedente la nascita dell’agricoltura e l’organizzazione in società complesse. Se diamo retta a quanto affermavano gli stessi Greci insomma, per capire come nasce e come si sviluppa un’arte della memoria, dobbiamo risalire all’uomo preistorico. Purtroppo di quel tempo lontano non è rimasto molto delle arti performative, poetiche e musicali, non possiamo ricostruire lo sviluppo del linguaggio artistico nel Paleolitico se non da quel poco che è rimasto delle arti figurative. Quando parliamo di arte preistorica pensiamo quindi in primo luogo alle pitture rupestri. I siti archeologici interessati dalla produzione di graffiti e disegni si trovano dislocati in varie parti del mondo fra Indonesia, Europa Occidentale, Sahel, Etiopia e Sudafrica. Ogni sito scoperto dagli archeologi reca segni di frequentazione per non meno di quattromila anni, per un totale di 30-40 millenni.

Ernst Gombrich ha osservato che la realizzazione delle pitture rupestri nelle grotte di Lascaux, Altamira, sui monti dell’Atlante, testimonia un’arte tutt’altro che primitiva. Non possono essere state realizzate da una persona sola ma prevedono complessi procedimenti per l’estrazione dei pigmenti, una tecnologia per allora avanzata nella realizzazione di cannucce, spatole, pennelli, bulini e una linea di trasmissione dell’arte attraverso le generazioni. Se da un lato non si può parlare ancora di religioni organizzate, dall’altro non possiamo ridurre il pensiero dietro quelle figurazioni al frutto di ingegni isolati o tradizioni limitate a un ristretto ambito territoriale, anche perché vogliamo ricordarlo, l’uomo preistorico era nomade, non stanziale. Il luogo fisico della caverna non era dunque legato a un insediamento stabile, ma andava interpretato come un luogo straordinario verso il quale convergevano le peregrinazioni di più gruppi. E’ improbabile che tutte le specie riprodotte a Lascaux fossero compresenti in loco nel momento in cui vennero ritratte sulle pareti della grotta, assai più verosimile che siano state riprodotte ‘a memoria’ e che avessero una funzione didattica, prima che magico-religiosa. Non è possibile ricostruire il processo rituale che si ritiene presiedesse a questo passaggio di informazioni, ma sappiamo che quei disegni costituivano uno strumento di condivisione del sapere.

Per comprendere davvero l’arte preistorica dobbiamo pensare che nessuna specie animale aveva osato nulla di simile a quanto l’uomo delle caverne iniziò a realizzare in Spagna, in Francia, in Africa sul finire del Paleolitico. Si è posto in quel momento per la prima volta il problema di fissare nella mente l’aspetto e le movenze di quegli stessi animali che gruppi di cacciatori inseguivano nei loro spostamenti, di riflettere sulle differenze tra rappresentazione del maschile e del femminile, sulla relazione tra forma e contenuto. Sono libri di pietra quelli che troviamo nell’arte preistorica. In questa fase l’arte non è ancora un’imitazione della realtà, ma un’astrazione concettuale di tipo analitico. Scomporla per comprenderla, fissare nella mente il contenuto dell’immagine ridotta ai suoi elementi essenziali. Le corna del toro, le gambe dell’uomo, il seno della donna, le ali dell’uccello. Le figurazioni più complesse del primo periodo evolvono man mano in forme più semplici, stereotipate e astratte. Basta confrontare tra loro le grandi e maestose rappresentazioni degli animali nelle grotte di Lascaux con quelle di Altamira in Spagna realizzate 10 mila anni più tardi, queste ultime con i graffiti rupestri della Val Camonica ancora successivi. La rappresentazione della realtà è sempre più ridotta nelle dimensioni e meno dettagliata, persegue man mano la logica di una tipizzazione e standardizzazione che evolve nella direzione del simbolo astratto, dell’ideogramma, del segno convenzionale.

SEGNI, PITTOGRAMMI E IDEOGRAMMI

Questo procedimento sembra complesso agli occhi dell’uomo e della donna moderni, nati e cresciuti in una società complessa, industrializzata, percorsa da una vertiginosa accelerazione mediatica. L’arte rupestre può influire sulla mnemotecnica contemporanea mostrando a noi l’importanza di affiancare alla visione interiore la produzione, sintesi e combinazione di segni elementari, analogici, nella forma di pittogrammi o ideogrammi. Dall’aggregazione di più segni elementari otterremo figurazioni più articolate che avremo la possibilità di sovrapporre o ‘annotare’ sulle immagini di memoria primitive, quelle restituite dai nostri sensi. Per quanto strano possa sembrare, è quello che facciamo ogni giorno quando osserviamo la segnaletica stradale o quando al supermercato riconosciamo a colpo d’occhio il logo di un prodotto al quale siamo abituati. Nel distinguere in un ristorante la toilette delle signore da quelle dei signori seguiamo la silhouette della figura umana con la gonna, escludendo quella dalle gambe dritte e lunghe. Sovrapponiamo un segno alla realtà, per rafforzarne un determinato aspetto. Quel segno offre al nostro sguardo una rappresentazione semplice, schematica, immediata, del contenuto che vuole trasmettere. Noi siamo per lo più abituati a fare questo in modo passivo, decodificando i segni predisposti da altri per orientare le nostre scelte. Possiamo esercitare questo tipo di attenzione in forma attiva e recuperare l’attitudine a questo tipo di scomposizione, analisi e rappresentazione della realtà, migliorando non solo la qualità della comprensione ma imparando a riconoscere e nel caso prevenire manipolazioni.

Nelle sessioni dedicate alla reminiscenza focalizzata o spontanea, la cosiddetta meditazione, rievocando le immagini di memoria su cui la nostra attenzione si sofferma spontaneamente, selezioneremo quelle che riteniamo davvero importanti a riassumere il nostro pensiero per elaborarne una rappresentazione grafica stilizzata attraverso l’uso di pittogrammi, ideogrammi, segni e simboli convenzionali. Dalla sintesi estrema di queste rappresentazioni analogiche, sovrapposte al teatro interiore dell’immaginazione, possiamo rafforzare l’analisi e la comprensione del mondo, migliorandone la conoscenza. Lo sviluppo di questa disciplina nell’arco dei millenni ha portato alla codificazione di quelli che Giordano Bruno chiamava compendi e repertori, ovvero tavole periodiche di segni a cui il mnemonista può attingere, dall’ideogramma alle lettere dell’alfabeto, dai numeri ai segni dello zodiaco, dai miti e le leggende ai simboli ricorrenti nei sogni, tutto quel che è segno ovvero che sta per qualcos’altro, si può impiegare per sintetizzare contenuti anche molto ampi creando sequenze, combinazioni da sovrapporre alla visione interiore del ‘terzo occhio’, ovvero il teatro sensoriale della reminiscenza. La produzione e l’uso di questi segni richiede un livello di competenza più alto rispetto al semplice richiamo del ricordo spontaneo, ma apre anche le porte a un progresso nella specializzazione che consente di ripulire le nostre immagini di memoria da tutto quello che non serve, alleggerendo il carico di lavoro sulla mente e migliorando sia nella prestazione, sia nell’economia del pensiero. Nella seconda metà del Novecento si è andata affermando una scienza dei segni che studia proprio questo, il rapporto fra significante e significato, la cosiddetta semiotica. Inutile ricordare, come altrove abbiamo più volte sostenuto, che non dobbiamo commettere l’errore di credere in una rappresentazione simbolica universale, corretta, veridica, contrapposta a una falsa, illusoria, non veritiera. Le immagini di memoria non sono di per sé giuste né sbagliate, sono personali e insindacabili. Siamo nel campo dell’arte e non in quello della scienza.

Bibliografia


Federico Berti,
Memoria, l’arte delle arti

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