Polimorfismo della forma Sonetto dall’antichità ai giorni nostri.

P. Beltrami, “Il Sonetto come problema”, in Rhythmica, I, 1, 2003, “Un aspetto fondamentale della poesia del Novecento è che la forma metrica non è un dato a priori, uno strumento neutro offerto dalla tradizione, ma è il risultato ogni volta di un progetto individuale, che fa parte dell’invenzione poetica. In altre parole, mentre prima della versificazione libera scrivere un sonetto significava semplicemente adottare una delle forme possibili per la poesia, scrivere un sonetto oggi, regolare o, come più normalmente avviene, irregolare, è sempre un gesto che richiama l’attenzione sulla forma, che la presenta in primo piano come oggetto poetico da prendere in considerazione

Nella prospettiva della seconda edizione dei sonetti satirici ispirati alla poesia romanesca, mi è stato chiesto di fondare la scelta dello schema rimico, diverso tra prima e seconda quartina. La domanda così posta è priva di senso come vedremo, ma per documentarlo dovrò ritornare nelle prossime settimane su temi cui forse i miei lettori abituali, avvezzi ormai sia alle invenzioni formali, sia alla grottesca leggerezza delle satire che pubblico, potrebbero non essere abituati. Prego loro di portare pazienza. In queste note desidero riassumere i punti salienti di un interessante saggio di Pietro Beltrami, che rimanda a molti altri testi illuminanti sul tema del ‘polimorfismo’ innato nella forma poetica del sonetto fin dalle sue origini e accentuatosi in modo particolarmente vistoso nella letteratura del Novecento, il secolo delle avanguardie per eccellenza in cui il bisogno di distorcere la forma ha storicamente portato a una serie di innovazioni e ‘invenzioni’ molteplici, con sonetti in versi non pentametri e di struttura interna liberissima, si rimanda per questo a Natascia Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, Pisa, ETS, 2000.

Il polimorfismo del sonetto non è solo un problema contemporaneo, ma si era già posto in precedenza. Ad esempio quando Pietro Bembo nel XVI secolo scrive Prose de la volgar lingua, II, XI, codifica il numero complessivo dei versi e le due rime nella prima parte , due o tre nella seconda, ma poi annota che Dante nella Vita Nuova chiama sonetto una canzone, alludendo al testo O voi che per la via d’Amor passate, e Morte villana di pietà nemica, entrambi presentati come sonetti dall’autore ma in realtà ‘sonetti doppi’ ovvero con l’introduzione di un settenario in rima col verso precedente dopo i versi dispari della prima parte e dopo il secondo verso delle terzine della seconda parte, schema questo che Antonio da Tempo catalogava come Sonetto doppio in un trattato del 1332 edito nel 1509 a Venezia. Un trattato che peraltro si prodiga di registrare tutte le possibili variazioni sul tema rispecchiando per la verità come ha notato Guglielmo Gorni, Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, più che l’uso medio, un gusto accentuato per la sperimentazione di forme metriche eccentriche. Nel Duecento sappiamo di almeno un autore che chiama davvero sonetto una canzone, Guglielmo Beroardi, Gravosa dimoranza (ed. Catenazzi, pp. 85-87). Non che l’autore non sapesse di aver scritto una canzone, al contrario nel suo caso bisogna dire che sonetto vuol dire davvero ‘canzone’ ovvero un testo che si canta considerato insieme con la sua musica, né il solo testo né la sola melodia, ma l’insieme delle due cose. Dante dice chiaramente nel De vulgari eloquentia che i musicisti chiamano i loro prodotti canzoni solo se sono uniti con un testo, mentre si chiamano canzoni i testi scritti per essere musicati, anche quando si leggono privi della musica (II VIII 5). Beltrami spiega con ben poche possibilità di equivoco che:


Il primo significato della parola sonetto è musicale, dal provenzale sonet diminutivo di so che significa ‘suono, melodia’, dunque ‘musichetta’, o anche ‘canzoncina’.


L’idea che il sonetto derivasse dallo strambotto era già stata proposta da Nicolò Tommaseo, Dei canti popolari e dello studio critico sui canti popolari di Giovanni Pitré, «Nuove effemeridi siciliane» 1, 1869, p. 26, cit. da Avalle 1990, p. 501). Il concetto di origine del sonetto prescinde in modo simile per Biadene dall’atto creativo individuale, non sarebbe cioè Giacomo da Lentini l’inventore di questa forma, ma si sarebbe evoluta nella pratica attraverso le generazioni finché qualcuno non ha iniziato a metterla per iscritto istituzionalizzandola proprio attraverso l’uso, apportandovi quel poco o molto di variazioni individuali che ogni autore produce nella propria poesia. Petrarca è il primo autore che riutilizza il modello dantesco in modo seriale, ripetendolo numerose volte e dotandolo così di una ‘forma fissa’. Non vi sono al momento motivi per falsificare l’ipotesi che chi ha scritto il primo sonetto abbia in sostanza composto una stanza di canzone. Non fa dunque particolare difficoltà l’ipotesi che chi ha scritto il primo sonetto abbia in sostanza composto una stanza di canzone: alle origini del successo della forma potrebbe esservi il successo della melodia su cui si cantava, un sonetto appunto, che avrebbe trascinato la scrittura di numerosi testi della stessa forma, tanto da creare rapidamente una moda e una forma metrica a sé anche al di fuori dell’uso musicale.

Il saggio di Pietro Beltrami parte insomma dall’ipotesi che il polimorfismo del sonetto, più a fondo trattato da Natascia Tonelli e altri studiosi delle avanguardie poetiche nel Novecento, non sia un fenomeno recente, frutto del capriccio di qualche poeta recalcitrante alla disciplina formale, ma che al contrario si debba ricercare nella storia stessa del sonetto letterario, in cui l’invenzione formale è parte integrante del processo creativo. Sebbene infatti lo schema istituzionalizzato a posteriori sia quello dei 14 versi divisi in due blocchi di cui uno binario e uno ternario, a loro volta suddivisi in due quartine e due terzine, per quanto i primi 8 versi vengano abitualmente a strutturarsi in due sole rime, vi sono tuttavia fin dall’epoca di Dante numerose contaminazioni che mettono in discussione sia il numero complessivo dei versi, sia la ripartizione in quartine e terzine, sia la continuità dello schema rimico fra prima e seconda quartina come nel sonetto elisabettiano: ognuna di queste varianti assume un nome diverso agli occhi dello studioso, ma per il poeta non sono che varianti di una stessa forma sonetto che secondo la filologia romantica e positivista nasce dalla rielaborazione di forme popolari cantate ed era associato già all’epoca della Scuola Siciliana a una prassi musicale. Ecco perché non ha mai scandalizzato nessuno la traduzione del Petrarca in Inghilterra, che stravolse la struttura stessa del componimento, oltre allo schema delle rime: perché non era quello l’essenziale.

Sulla base delle considerazioni proposte da Pietro Beltrami e in accordo con le fonti da lui citate, che riportiamo in bibliografia, la domanda iniziale sulla scelta dello schema rimico in una raccolta di quaranta sonetti è mal posta. Siamo del resto consci che queste note non esauriscano il tema sollevato, di una tale vastità da richiedere approfondimenti con i quali non mancheremo di tediarvi ancora.

Bibliografia
nel testo di Beltrami

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