Musica italiana, 1924-1939. Le 100 canzoni più popolari

Musica italiana (1924-1939)

Le 100 canzoni più popolari

Indice
delle canzoni

Canta Pierrot (1924)
Valencia, (1926)
Come una coppa di Champagne (1926)
Creola (1926)
La Spagnola (1926)
La Montanara (1927)
Fior di Shangai (1927)
Ricordati di me (1927)
L’uomo che amo, (1927)
Miniera (1927)
Ramona (1928)
Tango delle Geishe (1928)
L’Olandesina (1928)
Nilo Blu (1928)
Bèla Burdèla (1928)
Tango delle Rose (1928)
Tango delle Capinere (1928)
Spazzacamino (1929)
‘O Zappatore (1929)
Come le rose (1929)
Gigolò (1929)
Come una sigaretta (1930)
Solo per te Lucia (1930)
Maria La-O (1931)
La Bella Gigogin (1931)
Signorinella (1931)
Bombolo (1932)
Quel motivetto che mi piace tanto (1932)
Parlami d’amore Mariù (1932)
Strada Bianca (1932)
Si fa ma non si dice (1932)
Tentazione (1933)
Passione (1934)
Piccola Cinese (1934)
Violino Tzigano (1934)
Se tu sei con me (1934)
Piccola Vagabonda (1934)
Dicevo al cuore (1934)
Portami tante rose (1934)
Finestra chiusa (1934)
Luna Malinconica, (1934)
La gelosia non è più di moda (1934)
Madunina (1935)
La Siberiana (1935)
Un giorno ti dirò (1935)
Carovane del Tigrai (1935)
Il cappello di paglia di Firenze (1935)
Fra tanti gusti, La Radio (1935)
Questa notte ti dirò (1936)
Canzone a Maria (1936)
Crapa Pelada (1936)
Paesanella (1936)
Scrivimi (1936)
C’è una stella sul Cupolone (1937)
Torna Piccina (1937)
Bimba bruna (1937)
Qualche filo bianco (1937)
Agata (1937)
Anna (1937)
Samba alla fiorentina (1938)
‘Na sera ‘e maggio (1938)
Non me ne importa niente, (1938)
La porti un bacione a Firenze (1938)
Vivere (1938)
Ma le gambe, (1938)
Arcobaleno, (1938)
Tu non sei più la mia bambina (1938)
Un’ora sola ti vorrei, Satira (1938)
E’ arrivato l’Ambasciatore (1938)
La Bambola Rosa (1938)
Serenatella Sperduta (1938)
Una notte a Madera (1938)
Con te (1938)
Reginella Campagnola (1938)
Sulla Carrozzella (1939)
Colei che debbo amare (1939)
Se fossi indovino (1939)
Evviva la Torre di Pisa, (1939)
Tu sei sempre nel mio cuor (1939)
Caro Papà, (1939)
La Ghirlandeina, (1939)
Suona Balalaika (1939)
Voglio fischiettare (1939)
Valzer della povera gente (1939)
Carovaniere (1939)
Piccinina (1939)
Mille lire al mese (1939)
Maramao perché sei morto (1939)
Tamburo banda d’affori (1939)
Amami di più (1939)
Pippo non lo sa (1940)
La Bicicletta (1940)
A Zonzo (1942)

SONO SOLO CANZONETTE?

Quando pensiamo alla musica del ventennio fascista, di solito il primo riferimento che abbiamo in mente è la propaganda, quella aperta e dichiarata intendo. La sagra di Giarabub, Giovinezza e tante altre che i nostalgici della dittatura conservano ancora in vinili recuperati chissà dove, insieme ai discorsi del Duce e ai filmati dell’istituto Luce. In realtà noi sappiamo che durante il ventennio fascista la musica italiana ha conosciuto un periodo di grande splendore e spessore, le canzoni venivano scritte, arrangiate e orchestrate da maestri di musica, eseguite da virtuosi dello strumento, il livello era davvero molto alto e il mestiere partiva dalla gavetta nei tabarin, nei caffè chantant. La cultura popolare di regime era controllata da uno stesso ministero, che approvava o bandiva messaggi diversi in base al pubblico a cui si rivolgeva. Tutto è propaganda, quando passa da un medium di regime.

Ascoltando le cento canzoni più popolari pubblicate fra il ’24 e il ’39 salta subito all’orecchio un atteggiamento volgare, disgustoso e violento verso le donne, il cui universo pare sia ridotto a tre stereotipi ricorrenti: da un lato la femme fatale seduttrice che inganna il povero maschio latino, incapace di resistere al fuoco della passione, per condurlo inesorabilmente alla rovina, al delirio. Una donna capricciosa, frivola, vogliosa e nello stesso tempo interessata al lusso, al denaro, alla bella vita, una tentatrice perversa, una vipera viziosa. La cortigiana di Aretino. Dall’altro lato la donna-angelo che nella mentalità fascista è sempre mamma, sorella o sposa di almeno un maschio dominante: la donna che aspetta il ritorno del soldato dalla guerra, che bada ai lavori in casa, partorisce figli alla patria e li educa ai valori di fedeltà, obbedienza, coraggio, quella che se lascia la casa paterna è solo per unirsi nel sacro vincolo del matrimonio. In ultimo la donna-oggetto quasi sempre straniera, primitiva, animale da monta, orinale di carne, la spagnola, la cinesina, la siberiana, l’abissina, la slava, la creola, la zingara.

I valori del fascismo sono tutti contenuti anche nelle canzonette del varietà, controllate dalla censura del Minculpop, dove non si parla mai in modo esplicito di politica, sindacati, dissenso, se si esclude la scuola della satira ‘occulta’ perseguita da autori come Kramer, Mascheroni, Panzeri e proseguita con l’eredità del Quartetto Cetra. Un dissenso velato, che non si concretizza mai in qualche forma di militanza attiva. E’ più un’irrisione del potere, funzionale al potere stesso come un virus addomesticato, un vaccino. Innocua, a ben vederla. Integrata nel sistema di cui si prende beffa.Parte consistente del repertorio è rappresentato dalla musica ispirata al jazz americano, contro il quale Mussolini ha condotto una battaglia tutto sommato superficiale, bollandolo come un esempio di cultura ‘negroide’ e quindi, nella prospettiva suprematista e nazionalista dell’autocrazia fascista, barbara. In realtà gli orchestrali che hanno preso una posizione in favore di queste novità che venivano dall’altra parte dell’oceano, non si ispiravano tanto alle marching bands afro-americane, al blues o alla musica delle classi subalterne, ma piuttosto al jazz bianco delle big bands nate dalle fanfare militari, e delle grandi orchestre finanziate dal capitale americano. Kramer, Panzeri e gli altri avevan in mente più Gershwin e Carmichael che i neri di New Orleans. Sarà proprio quello il genere ‘vincente’ che sbarcherà in Italia, influenzando il nostro varietà per molti anni a venire. Non si può considerare una battaglia ‘antifascista’ quella per la dignità del jazz in Italia, ma solo la propensione di una parte dell’ambente musicale per un certo gusto ‘esterofilo’ destinato a impadronirsi del paese con la caduta del dittatore.

Quando si parla di emigrazione, nelle canzonette della radio tra il 1924 e il 1939 il punto di vista è sempre quello dell’arrampicatore sociale, o tutt’al più dell’eroe individualista che in miniera salva dalla morte i compagni, immolandosi per la loro salvezza. Non si parla mai del confino, dell’esilio, del lavoro sottopagato, del caporalato e della criminalità organizzata. L’emigrante è triste perché lascia la sua terra, il suo destino viene letto come una fatalità: la nazione si dissangua perdendo i suoi figli, tranne quando la partenza è verso nuovi territori conquistati all’impero, nuove terre sottratte con la forza ai popoli vinti in battaglia dal coraggio e dal valore dei soldati: in quel caso l’emigrazione è vista in modo completamente diverso, il premio, la ricompensa, il paradiso. Che ovviamente sarà anche la schiavitù di qualcun altro, ma di questo alla musica di regime non importa. Nessun riferimento al collettivismo, all’internazionalismo, all’unione degli sfruttati, alla prospettiva di un riscatto sociale che non sia quella del vincere nella competizione per l’accumulo e per il consolidamento della posizione sociale. Questi i valori della musica leggera trasmessa dalla radio in quegli anni, anche se come vedremo tra poco una visione alternativa continuò a resistere passando anche attraverso le maglie della censura.

Musica
antifascista
nel ventennio

Se pure la storia che abbiamo studiato a scuola insegna che il fascismo ebbe la meglio sull’opposizione schiacciandola con la forza, noi sappiamo che non è stato mai veramente così. Il lavoro di tanti etnomusicologi, le testimonianze musicali raccolte dalla memoria viva delle persone, hanno dimostrato che esisteva un sottobosco mai del tutto domato, mai messo definitivamente a tacere. Gran parte di quel materiale è ora disponibile all’ascolto gratuito in diversi archivi, consultando i quali veniamo a sapere che le più importanti canzoni propagandate dalla radio e dai fogli volanti di regime erano soggette a parodia, satira, riscrittura, da parte di autori non sempre sconosciuti, non sempre analfabeti, spesso colti intellettuali borghesi che pur convivendo con lo stato fascista, riuscivano a far passare questi testi nella rete di una comunicazione alternativa a quella dominante. Canzoni che giravano l’Europa e il mondo su fogli volanti in cui veniva indicata l’aria su cui cantarle, a volte non serviva nemmeno conoscere la musica.

Ho raccolto di seguito alcuni tra i brani più popolari di quegli anni, dagli indici del deposito.org. Non venivano cantati che raramente, non in pubblico almeno: se qualcuno ti sentiva potevi finire al confino, all’esilio, o magari perdevi il posto di lavoro, ti ritrovavi isolato dagli amici, dal quartiere, costretto a lasciare il paese. Allora non si poteva scioperare, non si poteva manifestare, molto rare le occasioni per cantarli davvero quei testi. Sono sopravvissuti vent’anni nella memoria di chi li aveva letti, di chi se li ripeteva a mente per non dimenticarli. Quello dei canti sociali nel ventennio non è un corpus alternativo, ma complementare. La censura, prima e dopo la guerra, ha provato a escluderlo perché scomodo, ratificando l’idea di una dittatura in qualche modo vincente almeno fino alla carneficina della guerra, ma noi sappiamo che non era così. Il fascismo è stato più debole di quanto i fascisti volessero ammettere e la sopravvivenza di questo repertorio lo dimostra. Dimenticarlo è mutilare la memoria storica del nostro paese. Conoscere queste canzoni non vuol dire per forza cantarle, ma tenerle a mente, trasmetterle a chi verrà dopo di noi. L’unico medium su cui non può camminare un regime, sono i nostri ricordi e la capacità d’insegnarli. Siamo noi.

Indice
delle canzoni
antifasciste
1924-1939

In ordine alfabetico
dal
Deposito.org

Amore mio non piangere
Addio morettin ti lascio
Bolscevismo
Cadono a mille a mille i combattenti
Canto dei confinati
Canto dei deportati
Canto dei Partigiani
Canzone d’Albania
Chi non sgobba non magna
Combattete lavoratori
Canta di Matteotti
Chi non sgobba non magna 
Delinquenza
E’ ffinidi i bozzi boni
E quando alfine 
Evviva il primo di maggio
Figli dell’officina
Figli di nessuno
Figlio del popolo
Giovinezza
Giovinezza (versione degli Arditi del Popolo)
Giovinezza pé ‘n tal cü
Ignoranti senza scuole
I fascisti viareggini 
Il cafone sanguinario
Il piccolo soldato
I ne g’ha messo de la Todt
Inno Arditi Del Popolo
Invano Johnson si opporrà
I padroni de le filande
La battaglia di Guadalajara
La battaglia di San Lorenzo
La condanna a morte di Sacco e Vanzetti
La Comune di Parigi 
La Guardia Rossa
La leggera
La nostra società l’è la filanda
La leggenda della Neva
Lamento del carbonaro
La tabaccara
La vittoria del comunismo
L’hanno ammazzato Aldo Massei
Lenin e Stalin
Mano alla bomba
Nati noi siam nell’umida tana
Noi siamo la gioventù comunista
O cara mamma vienimi incontra
O mamma mia tegnìm a cà
O Russia bella
Povere filandine
Povero Matteotti
Povre filandere
Preti e borghesi
Quando sento il primo fischio
Quattro signori 
Se arriverà Lenin 
Senti le rane che cantano
Sento il fischio del vapore
Serenata a Benito Mussolini
Son passata di Garlate
Sono andato a Ventimiglia 
Spartaco incatenato
Stornelli di Padule di Fucecchio
Stornelli viterbesi (So’stato al lavorà)
Stornello antifascista livornese
Strofette satiriche antifasciste
Sventola bandiera rossa 
Un cavallo si lamenta
Va in filànda laùra bén
Viva Lenin


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del Deposito.Org


Il terzo indice non verrà pubblicato, quello delle canzoni di propaganda esplicitamente fascista: non serve, se hai letto fin qui sai quel che volevo dirti. Cosa rimane del fascismo nella musica del dopoguerra? Molto più di quanto non saremmo portati a credere. L’immagine della donna, il disimpegno, la satira ‘addomesticata’, l’eredità di quelle canzonette che hanno convissuto con il fascismo senza metterlo mai veramente in discussione se non con qualche innocua irrisione funzionale al regime stesso. Un gusto vagamente esterofilo per la musica anglo-americana e col tempo, il rifiuto delle tradizioni musicali regionali se non come appannaggio di un folklorismo nostalgico. Il repertorio del canto sociale continuerà a svilupparsi in modo parallelo, nelle cantine e nelle osterie, nella canzone politica. Così le canzoni fasciste troveranno continuità nei cori da stadio, anche quello un genere ‘minore’. Non importa la forma musicale che assumono le canzoni, quel che conta è il loro contenuto o come diceva Brecht, l’azione che suggeriscono. Nella società dello spettacolo tutto è decontestualizzato, l’etica e la mistica fascista, la propaganda, sono dappertutto; conoscere la musica di allora può aiutarci a capire meglio la musica di adesso, di quali valori si fa portavoce.

In questo articolo pubblico due indici tra loro complementari, la musica nazional popolare della radio nel ventennio fascista, e il canto sociale, anarchico, comunista, che in quegli stessi anni circolava clandestinamente nei fogli volanti.
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